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lunedì 15 gennaio 2018

"le campane cantano la gloria del Signore". / Dio MATURA



Come disse Giovanni Paolo II, "le campane cantano la gloria del Signore". Ma come funzionano le campane? Che ruolo hanno nella Liturgia e come sono realizzate? Lo scopriamo con Don Emanuele Cuccarollo, Parroco di Lisiera - Bolzano Vicentino (VI) ed Emanuele Allanconi della Fonderia Allanconi.

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www.radioreb.org

Prima di tutto
SARÀ DON EMANUELE CUCCAROLLO A CONDURRE PRIMA DI TUTTO, LA RIFLESSIONE SUL VANGELO DEL GIORNO, DA DOMENICA 27 NOVEMBRE PER TUTTO IL TEMPO DI AVVENTO E DI NATALE

Don Emanuele Cuccarollo è un presbitero della Chiesa di Vicenza. Nato nel 1972 a Bolzano, nel 1984 ha iniziato il suo percorso di studio nel Seminario Vescovile di Vicenza dove nel 1997 ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia e ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale per le mani dell’allora vescovo di Vicenza mons.Pietro Nonis. Nei primi anni del suo ministero è stato vicario cooperatore a Lonigo, Castelnovo e Isola Vicentina. Dal 2004 è direttore di Radio Oreb e dal 2005 parroco di Lisiera. Nel 2008 ha fondato Videoflashsnc, una società di produzioni televisive a servizio della Chiesa Vicentina.  Oltre a coordinare la produzione di documentari e servizi televisivi di carattere religioso e la proposta di svariate trasmissioni radiofoniche di taglio catechetico-pastorale, ha curato la pubblicazione di altri due libri di spiritualità biblica: “L’Intelligenza della fede” e “Lo Sguardo generativo”. I proventi di tali produzioni e pubblicazioni, acquistabili alla segreteria di Radio Oreb e nelle librerie Communitas, vengono interamente devoluti per l’opera di evangelizzazione, di formazione culturale e di animazione cristiana di Radio Oreb.
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Commento a cura di don Emanuele Cuccarollo, parroco di Lisiera (Vicenza) e assistente spirituale di Radio Oreb.
Link al video
LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 6 agosto 2017 anche qui.
Trasfigurazione del Signore – Anno A

• Colore liturgico: Verde
Dn 7,9-10.13-14; Sal. 96; 2Pt 1,16-19; Mt 17, 1-9
Il suo volto brillò come il sole.
Mt 17, 1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
• 06 – 12 Agosto 2017
• Tempo Ordinario XVIII, Colore Bianco
• Lezionario: Ciclo A | Salterio: sett. 2
Fonte: LaSacraBibbia.net
LEGGI ALTRI COMMENTI AL VANGELO

“ProgettOmelia” - Commento Vangelo XX Domenica Tempo ordinario don Emanuele Cuccarollo, assistente spirituale di Radio Oreb. A cura dell'Ufficio Comunicazioni Sociali dell'Arcidiocesi di Palermo direttore don Pino Grasso

Registrato nella sede di Radio Oreb.


PROMEMORIA

ETTY HILLESUM 3

Fratel MichaelDavide
Etty Hillesum: Dio matura. 
Un viaggio in quaranta tappe 

Così vicino, così lontano
Sarebbe bello sentirci dire a nostra volta da parte del Signore Gesù: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Lc 12, 34). Per ricevere l’elogio non ci resta che fare lo stesso cammino dello scriba che passa da un distinto – Dio e il prossimo – all’esigenza unica e unificante di «amarlo… amare» (Lc 12, 33). Ma come accedere a questa fecondità se non perché capaci di offrire a Dio un cuore vergine che Gli lascia tutto lo spazio, tutta l’iniziativa: «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore» (Os 14, 6). L’unico vero rischio per l’amore è che esso si inaridisca per questo l’unica speranza per il nostro amore è la promessa del Signore-Sposo: «Sarò come rugiada per Israele» (Os 15, 6).

Etty si è offerta continuamente come terra faticosamente ritornata così vergine e appena nata (159) a questa «rugiada dell’Ermon» (Sl 132, 3) capace di far rifiorire ogni deserto. Si potrebbe rileggere l’intero processo interiore di Etty come una conversione, un ritorno, una re-staurazione della verginità del suo cuore che, pian piano, re-impara il senso e il linguaggio dell’amore, l’arte di farsi amare per poter infine amare in modo tanto antico ma sempre nuovo.

L’inizio del suo combattimento spirituale è come segnato da una preghiera e da una presa di coscienza. La preghiera suona in questi termini: Mio Dio, stammi vicino e dammi forza, perché la battaglia si farà dura. La presa di coscienza in certo modo accelerata dalla passione crescente – il suo corpo e la sua bocca erano così vicini – è netta ma non facile da gestire: Ora che sto pian piano diventando più "raccolta", mi rendo conto di essere una persona terribilmente seria che non scherza con l’amore (36). Imparare a non scherzare con l’amore! Avvedersi profondamente che con l’amore non si scherza! Rendersi conto che l’amore non scherza! Un compito arduo e mai completamente portato a termine nelle nostre vite in cui il termine "amore" rischia di non corrispondere a quella citazione del Dr. Koff che, nonostante la sua apparente banalità, stupisce Etty che l’annota in una sua lettera indirizzata a coloro che erano stati la sua "tribù" ad Amsterdam: Eppure Dio è Amore (79).

Non si può assolutamente in-seguire Etty nel suo itinerario se non si coglie nella sua vita una straordinaria passionalità da lei riconosciuta, accolta, vissuta persino maldestramente ma che pure ha rappresentato l’elemento di base per una sorta di operazione alchemica che, per molti aspetti, ha condotto Etty a distillare - nell’alambicco del suo cuore - la pietra filosofale, l’aurum non vulgi cercato dagli alchimisti e dai mistici di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Questo aurum non vulgi è rappresentato per Etty da due cose: una coscienza ampliata e l’intuizione dell’esattezza dell’Inno alla Carità scritto da Paolo per i Corinti di tutti i tempi. Ella scrive con gratitudine: E’ stato un anno immensamente ricco: ogni giorno porta una nuova ricchezza. E ti ringrazio perché mi hai concesso tanto spazio da poterla accogliere tutto. Al ringraziamento fa eco una profonda meraviglia per il fattoche si possa essere un fuoco così sfavillante! (218).

La sua presa di coscienza – in cui Rilke è stato uno dei miei più grandi educatori (218) –non è per nulla intimistica ma ha una sorta di effetto cosmico: E’ probabile che a guerra finita gli uomini saranno più ricettiva a quella realtà, che l’umanità intera sarà compenetrata da un ordine superiore (219). E questo ordine superiore ha un volto e un nome preciso che Etty attinge da Paolo: E se anche… e non avessi l’amore, tutto questo non mi servirebbe a nulla (219). Eppure questa sorta di ingresso nell’ordine superiore dell’amore sarà sempre legato per Etty a quel luogo terrestre (97) la cui parte immortale (219) continua a vivere nella sua stessa vita – l’amico Spier -. Nella sua maturità spirituale Etty continuerà a ricordare la fonte, l’intermediario del suo processo di individuazione, di purificazione e di ri-conciliazione: Mio Dio ti ringrazio perché ho potuto conoscere così pienamente una delle tue creature, anima e corpo (218).

Si potrebbe qui citare la bellissima frase di Gregorio Magno «per amorem agnoscimus/ conosciamo attraverso l’amore», ma non si può fare a meno di accostarle un’altra frase dello stesso Papa in base a cui l’amore che apre alla conoscenza, che fa accedere alla coscienza deve frequentare la «doloris schola / la scuola del dolore». Per Etty l’amore e il sentimento sono abbastanza estranei tra loro, persino implacabili avversari che si spronano vicendevolmente obbligando e forzando ciascuno a crescere. L’amore è per Etty sempre legato alla capacità di soffrire fino a subire l’incontro con la morte dell’amato, la più crudele delle prove: La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Si può soffrire in modo degno e indegno dell’uomo. La maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore e così vive ossessionata da mille paure. E rincara la dose quando aggiunge: si deve anche avere la forza di soffrire da soli e di non pesare sugli altri con le proprie paure e i propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità (136).

L’amore quale frutto di una lunga e-ducazione che comincia solo nel momento in cui si accetta di essere condotti – magari forzatamente - fuori dal piccolo mondo della propria minuscola storia fatta spesso di piccinerie per allargare gli orizzonti. Etty ha conosciuto i pericoli di un amore non ancora redento da se stesso nella sua relazione con Spier pienamente cosciente del fatto che: se io riversassi tutto il mio amore e la mia forza su una persona sola, la distruggerei (61). Etty ha attraversato la fatica della trasformazione della passionalità come un semplice aggrapparsi disperato per giungere a quel mirabilebreve reciproco indugiare nell’atmosfera dell’altro (103), in cui l’altro è sempre così teneramente vicino e al contempo tanto giustamente lontano. Etty si è come consumata nella fatica di apprendere «l’arte dell’amore» (Ct 8, 2) fino a sentire la necessità di poter disporre di una lingua nuova (190) per conservarne l’incontaminato profumo in se stessa e per diffonderlo a piene mani: Il nostro compito non è forse allora di «mantenere ben odorosa la nostra anima», in mezzo a quelle esalazioni visiose? (132).

Proprio quando la ferita dell’assenza della persona amata si fa più lancinante Etty ci dà un saggio di questa lingua nuova sempre tutta da creare, un presagio di questo sottilissimo invincibile profumo passando, senza soluzione di continuità, dalla nostalgia per Spier all’ammirazione per Agostino: E’ così austero e così ardente. E così appassionato, si abbandona così completamente nelle sue lettere d’amore a Dio. In fondo quelle a Dio sono le uniche lettere d’amore che si dovrebbero poter scrivere. E aggiunge parlando prima di tutto a se stessa e poi a ciascuno di noi: Chissà se la gente imparerà che l’amore per la persona reca assai più felicità e buoni frutti che l’amore per il sesso… (235). Ancora una volta l’eco di Rilke che nelle Lettere al suo Giovane Poeta auspica il passaggio dal desiderio dell’incontro tra Uomo e Donna verso l’incontro tra Umanità e Umanità. Ma per condividerla bisognerebbe averla dentro una Umanità degna di questo nome! Troppe volte si dimentica che l’amore è il frutto maturo proprio di un’Umanità coltivata a regola d’arte. Così si conclude la pagina di Etty: Congiungo le mani in un gesto che mi è divenuto caro… la preghiera è la grande porta per imparare ad amare «in spirito e verità, Dio cerca tali adoratori» (Gv 4, 23) non lontani dal suo Regno ma mai troppo vicini. Se è vero – ed è vero! – che «quando l’assoluto della separazione diventa rapporto, non è più possibile essere separati» (D. M. Turoldo).


Distanza di sicurezza

A metà del cammino quaresimale siamo posti di fronte al mistero del fariseo e del pubblicano che si recano – ambedue – al Tempio per pregare ma in modo così profondamente diverso. Il problema del fariseo – che è spesso il nostro – non è quello di presentarsi davanti a Dio con il diplomino da bravo ragazzo bensì il bisogno quasi ossessivo di com-misurare gli altri a partire da se stesso mettendosi così – tanto inconsciamente – proprio al posto di quel Dio a cui si vorrebbe rivolgere: al centro del mondo.
Il pubblicano invece «fermatosi a distanza» (Lc 18, 13) non potrebbe neanche immaginare una preghiera come quella che davanti a sé sale dal cuore del fariseo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri…» (Lc 18, 11). Il povero fariseo pensa di sapere tutto di sé, tutto degli altri e tutto – ahimé! – del suo piccolo dio che rischia di assomigliargli così tremendamente ma inutilmente. La distanza invece che il pubblicano è quasi costretto a mantenere gli permette di dire la cosa più certa su se stesso - «sono un peccatore» - aprendosi così alla grande sorpresa di un Dio che «verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera, che feconda la terra» (Os 6, 3)… come una grande sorpresa!
Se vediamo spesso Etty in atteggiamento – crescente e approfondito – di preghiera non la cogliamo mai in piedi ma sempre e solo in ginocchio e persino un po’ vergognosa e un tantino umiliata dal suo modo di pregare: Nell’alba grigia di oggi, in un moto di irrequietezza, mi sono trovata improvvisamente per terra, in ginocchio tra il letto disfatto di Han e la sua macchina da scrivere – sarebbe difficile immaginare niente di meno convenzionale -, tutta rannicchiata con la testa che toccava il pavimento. Forse un gesto per estorcere pace (90).
Non è difficile ravvisare in Etty una degna figlia di Abramo che quando osa la preghiera lo fa per estorcere qualcosa per gli altri. Quanto Abramo cerca di estorcere la salvezza degli abitanti di Sodoma e Gomorra si fa tutt’uno con il suo essere «polvere e cenere» (Gn 18, 27). E’ impossibile ravvisare in Etty un atteggiamento minimamente approssimato a quello del fariseo descritto da Gesù, la sua è una preghiera intimissima – lo abbiamo già rilevato: più intima dei gesti dell’amore -, e non c’è in essa nulla da mostrare ma tutto da ri-velare continuamente: E a Han che entrava in quel momento e sembrava un po’ stupito di quella scena, ho detto che cercavo un bottone – ma non era vero (90).
Mentre il fariseo nella preghiera prende le distanze dai suoi fratelli in umanità sottolineando quanto la sua vita sia differente dalla loro, Etty – invece - alla scuola della preghiera pura e purificante che ha appreso con l’aiuto di Spier diventerà sempre più presente e solidale alla vita dei suoi fratelli e sorelle fino a non ritenere – mai e poi mai - la sua vita né più degna né più preziosa di quella di chiunque altro persino di quella del suo persecutore. Nel momento supremo della morte della sua si attua in Etty uno scatto in avanti nel suo rapporto con Dio e contemporaneamente nel suo rapportarsi ancora più profondamente – si potrebbe dire essenzialmente – con l’umanità a cui chiede il permesso di fungere da anima: Spesso a Westerbork mentre andavo in giro con quei chiassosi e litigiosi membri del Consiglio Ebraico mi veniva da pensare: su, lasciatemi essere la baracca in cui si raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io non ho bisogno di far così tanto ho solo bisogno di esserci. Lasciatemi essere l’anima in questo corpo (199). Come non pensare all’autocoscienza dei cristiani del II secolo di essere per il mondo quello che l’anima è per il corpo (Lettera a Diogneto)?
Siamo agli antipodi dell’atteggiamento del fariseo che ha bisogno non solo di fare ma anche di elencare ciò che fa e, ancora di più, siamo diametralmente all’opposto del suo evidenziare il peggio di chi gli sta accanto. Etty ha conosciuto l’esperienza dell’esseretoccata nel profondo (34), passaggio che ha risvegliato le sue forze migliori nel suo contatto con Spier e, per questo, sente il dovere di vivere nella stessa capacità di attivare il meglio che c’è in ciascuno. Per Platone compito degli amici è quello di aiutarsi a diventare migliori, a dare il meglio di sé. In tal senso quella tra Spier ed Etty fu vera amicizia!
Mentre si appresta – per il funerale della sua S - a sedere per la prima volta in una vettura con le tendine nere sorge spontanea dal cuore di Etty una preghiera inestricabilmente connessa ad un impegno: Concedimi pazienza, mio Dio, concedimi una pazienza del tutto nuova… farò del mio meglio. Molti uomini sono ancora geroglifici per me, ma pian piano imparo a decifrarli. E’ la cosa più bella che conosca: leggere la vita degli uomini (204). Quella di Etty è una lettura, un continuo decifrare geroglifici in attesa di imparare la lingua nuova della carità e dell’amore universali.
E l’Accademia per questo apprendimento, per questo raffinamento delle capacità di "lettura" di Etty non sarà altro che il campo di Westerbork dove è come se mi trovassi davanti al nudo steccato della vita. Davanti alla sua ossatura, libera da qualsiasi costruzione esterna. Mio Dio, ti ringrazio perché mi insegni a leggere sempre meglio (204). Sembra che ad Etty non sia sufficiente essere sempre più in grado di porsi davanti all’umanità come davanti ad una misteriosa stele tutta da decifrare, in lei si fa urgente il desiderio di comunicare questa capacità, questo atteggiamento di lettura accurata, scevra da ogni pre-giudizio e pre-comprensione: Come posso far sì che anche altri leggano dentro a tutte quelle persone – persone che devono essere decifrate come geroglifici, tratto dopo tratto - finché non ci si trovi davanti ad un unico, grande e comprensibile insieme, incorniciato da cielo e brughiera? (208).
Westerbork rappresenta il Tempio aperto in cui la sua anima si è aperta a Dio attraverso la sua immagine impressa indelebilmente su ogni volta e in ogni storia. Non troviamo mai in Etty un attitudine che si possa definire "cultuale" eppure è come se tutta la sua vita – giorno dopo giorno – si svolgesse in un’atmosfera indubitabilmente sacrale. Si potrebbe dire che Etty ha incontrato il Mistero nel Tempio in-delimitabile nell’Amore e nel Dolore: Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore (205).Questo interminabile dolore non scandalizzerà mai Etty ma la renderà sempre più grata per il dono della vita da lei ritenuta sempre e solo buona e bella non perché lo sia ma perché – misteriosamente – lo sta diventando sotto i nostri occhi attraverso il nostro proprio cuore: Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità (209). E’ lo sguardo del pubblicano che sa di essere peccatore e che, pur a distanza di sicurezza per non contaminare niente e nessuno, non rinuncia comunque all’umile gesto della preghiera: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore». Quando un primo geroglifico dell’umanità finalmente viene amorevolmente e onestamente interpretato - il geroglifico che indica l’abisso del proprio cuore – allora si può dire con serena sicurezza e nonostante tutto:«guarda… l’umanità sta crescendo!».
Primavera
Ieri sera, mentre andavo con lui in bicicletta, avevo dentro un grande e dolce desiderio di primavera. E mentre pedalavo sognando sull’asfalto della Larissestraat tutta impaziente di vederlo, d’un tratto mi sono sentita accarezzare da una tiepida aria di primavera e ho pensato: anche questo va bene.
Perché non si potrebbe provare un grande e tenero trasposto amoroso per una primavera, per tutti gli uomini? E si può anche fare amicizia con un inverno, con una città o con una campagna. Mi ricordo il faggio rosso-vino della mia adolescenza. Avevo un rapporto speciale con quella pianta. Alla sera ero capace improvvisamente di provarne nostalgia e allora andavo a cercarla, facevo mezz’ora di bicicletta e poi le giravo intorno, presa e incantata dalla vista di quell’albero rosso-sangue.
Sì perché non si potrebbe avere un’esperienza amorosa con una primavera?
E la carezza di quell’aria era così tenera e così universale che le mani di un uomo, anche le sue, mi sembravano ruvide al confronto. (105-106)
Buona Primavera!


Tramonto in-finito

Strana notazione cronologica quella che ritroviamo nel vangelo di Giovanni: «S’informò a che ora avesse cominciato a stare meglio… "Ieri un’ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato"» (Gv 4, 52). Cammino di un giorno intero quello percorso da questo padre in pena per il proprio figlio. Un cammino sostenuto da una sola parola e nulla di più: «Tuo figlio vive!» (Gv 4,50). Nella parola del Signore Gesù si realizza pienamente tutta la promessa del profeta: «Non ci sarà più un bambino che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza» (Is 65,20). Il Signore Gesù inaugura i suoi miracoli a Cana di Galilea e lo fa restituendo all’umanità la possibilità di vivere fino in fondo e pienamente le due realtà più belle e più umane della vita: la sponsalità e la fecondità, un fiore per la vita e un frutto oltre la morte!

Nella nostra vita – in molteplici modi – portiamo la dolce ferita di questa pienezza ma, comunque, dopo le zenit del mezzogiorno comincia a declinare verso il tramonto che – pur nella suo dolce attrattiva – pure ci spaventa soprattutto se non ne abbiamo ancora conosciuto e gustato la pienezza. Sempre portiamo nel nostro intimo un figlio, un bimbo che anela a vivere in tutta la sua pienezza: è il nostro io profondo, la nostra anima. E il Signore, in certo modo, sempre acconsente a fermare il sole (Gs 10,12) per darci il tempo necessario a portare a maturazione il frutto del nostro grembo spirituale perché non siacome un libro – e quale libro! – in cui io sia rimasta a metà (226).

Etty dovette misurarsi ampiamente e drammaticamente con questo travaglio. Il rifiuto di acconsentire ad una maternità non desiderata e interrotta camminò di pari passo con una cura audace della sua interiorità che la rese al contempo – difficile parlarne – vergine da ogni ansia di sopravvivenza e di possesso e madre nella pura gratuità di una presenza forte e distaccata a cui si darebbe volentieri il nome di custodia: Quando capitava che una donna o un bambino affamato si mettessero a piangere dietro uno dei nostri tavoli di registrazione, mi mettevo dietro di loro, quasi a proteggerli, le mie braccia incrociate sul petto, sorridevo un pochino e dentro di me dicevo a quell’esserino rannicchiato e smarrito: tutte queste cose non sono poi così gravi, non sono proprio così gravi. Rimanevo lì e c’ero, si poteva far altro? (233).

Etty guarderà continuamente Westerbork e il suo fiume di dolore in particolare attraverso le persone più deboli e più impreparate, primi fra tutti gli anziani e i bambini: Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli angoli e le fessure della baracca illuminata in modo spettrale, è quasi insopportabile. Nella mia mente affiora un nome: Erode (134). Eppure questo nome affiora in modo quasi sereno come se Etty coltivasse oltre il «grido di Rachele che piange i suoi figli» (Mt 2,18) l’atteggiamento di Maria e di Giuseppe silenziosamente in cammino in obbedienza ad eventi e a segni difficilmente comprensibili. Sarebbe impossibile pensare ad Etty come esente dall’orrore che simili tragedie – soprattutto il dolore innocente degli innocenti – innescano come uno degli istinti umani più naturali, eppure è come se questa donna continuasse a sussurrare - dal profondo della sua anima in crescita - una indicibile nenia: sorridevo… dentro di me dicevo a quell’esserino smarrito: queste cose non sono poi così gravi, non sono poi così gravi (233).

L’assurdità e l’inaccettabilità di ciò che sta avvenendo sono chiare al cuore di Etty che scrive realisticamente: L’inferno di Dante è davvero un’operetta frivola al confronto. «Questo è l’inferno»… certe volte la mia testa si sente urlare, mugghiare, e fischiare intorno, e i cieli si stendono così bassi e minacciosi sopra di me (176). Eppure il suo cuore è sempre capace di cogliere - quasi carpire furtivamente - al reale la sua radice di speranza. Subito dopo aver menzionato Erode immediatamente aggiunge: Sulla barella che porta al treno cominciano le doglie, e allora è permesso portare quella donna in ospedale invece che nel treno merci, il che può essere annoverato fra i gesti più umani che siano stati compiuti stanotte (134).

Etty si fa carico di registrare quei rarissimi gesti più umani che strappano all’Inferno la sua vittoria. In questo suo stare alle spalle – come un angelo custode - capace di sorridere a neonati terrorizzati e a vecchi umiliati, Etty traduce l’evangelico sorso d’acqua di cui parla il Signore Gesù: potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro (233). Laddove il gridare, il protestare, il recriminare, l’odiare non farebbero che rendere l’Inferno più riarso ecco che un sorso d’acqua, in certo modo, lo rende provvisorio e comunque perituro e, certamente, non parola ultima sulla vita.

Mentre cresce il contatto con la sua anima e si fa più cosciente il senso di piccolezza unitamente alla certezza della fine che si fa evidente - Mio Dio è proprio vero che tutte quelle porte si chiudono? Sì, è così. Le porte si chiudono sulle moltitudini cacciate indietro e pigiate nei vagoni merci (143) – Etty fa pure un’altra esperienza non meno forte e, di certo, più importante: Ci sono dei momenti in cui mi sento come un uccellino nascosto in una grande mano protettiva. E aggiunge quasi per non perdere il contatto con il dramma di un continuo combattimento: Ieri il mio cuore era come un uccello preso in trappola, ora è di nuovo libero e vola indisturbato dappertutto. Oggi c’è il sole. Preparo i miei panini e mi metto in cammino (190).

Il sole è per Etty una sorta di garanzia che la vita continua e che c’è sempre una forza interiore che non solo ne può arrestare il corso (Gs 10, 12) ma, ancora più radicalmente e misteriosamente, può farlo sorgere di nuovo dopo una lunga notte: il vero miracolo è quest’ultimo ed è quotidiano e straordinariamente ordinario. Si tratta di imparare proprio dal sole sempre in viaggio, sempre in cammino, sempre morente e per questo perennemente ri-sorgente. Avere occhi di sole significa non disperare mai ma – come quel padre del vangelo – acconsentire al cammino pur con l’angoscia e il terrore nel cuore. Etty non cerca di fermare la notte – il suo grande maestro Rilke le ha insegnato a cantarla e ad amarla – ma prende amorevolmente il suo posto di guardia tra i merli di tutte le pene notturne e le solitudini di un’umanità sofferente che attraversano il mio piccolo cuore e lo fanno dolorare (215): «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,11-12). La notte obbliga alla conversione!

In una medesima lettera Etty annota i segni dell’invincibile speranza nella vita: Una volta, nel cuore della notte, una gatta randagia è entrata nella nostra baracca, le abbiamo messo una cappelliera sul gabinetto e là ha avuto i suoi piccoli. Certe volte mi sento proprio come un gatto randagio senza cappelliera. E subito dopo: Stanotte è nato il figlio di Jopie. Si chiama Benjamin e dorme nel cassetto di un armadio (117). No, l’ultima parola sulla storia non sarà mai la follia di Erode ma la parola del Signore che continua a dire «Và tuo figlio vive» (Gv 4, 50). E perché il miracolo della vita possa rinnovarsi attorno a noi dobbiamo trasformare il nostro cuore in un tramonto in-finito per essere sempre di più come un centro di tranquillità in quel manicomio (177) che sembra essere il mondo… non ci vuole molto basta una cappelliera o un semplice cassetto di armadio… in un’altra non tanto dissimile Notte non bastò forse una "mangiatoia" (Lc 2, 12)?

Inguaribili?
… «da trentotto anni era malato» (Gv 5, 5) e dal testo si può presumere che da così tanto tempo – una vita! – quest’uomo aspetta di guarire. Ma perché il Signore Gesù si rivolge proprio a quest’uomo a dispetto del «gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici» (Gv 5, 3)? Forse la risposta del paralitico ci svela il mistero di questa predilezione. Gesù chiede «Vuoi guarire?» e si sente rispondere: «Signore, io non ho nessuno…» (Gv 5, 7). Che cosa ci può essere di più terribilmente paralizzante di questa percezione profonda e terribile: «Io non ho nessuno!» e per questo non ho nessuna speranza perché per guarire c’è bisogno che qualcuno «mi immerga nella piscina» (Gv 5, 7). «Io non ho nessuno»facilmente diventa "Io non sono nessuno".

Interessante notare come tutto il processo di spiritualizzazione (65) di Etty cominci da un insegnamento fondamentale di Spier attraverso una sua paziente-allieva: «non si è soli al mondo» (25). A questo insegnamento seguirà un esperienza forte di relazione che curerà in Etty una sorta di malattia del desiderio che le diviene sempre più chiara quando scrive:«Io voglio qualcosa e non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca, tutto è in tensione nella mia testa… e ora mi ritrovo in mezzo agli arbusti… l’irrequietezza ha preso a salirmi da ogni parte come i vapori di una palude» (39).

Dall’inizio alla fine del suo Diario Etty è continuamente confrontata con una vitalità crescente – «pare che sia in un periodo di grande fioritura… irradio luce in tutte le direzioni» (97) - unita a momenti in cui il suo corpo si fa portavoce di un disagio dando voce alle paure più ancestrali di cui conosciamo cosi poco il linguaggio: «Ma vorrei tanto star bene» (229). Continuamente e fino alla fine Etty deve lottare un po’ con la sua salute che la immobilizza, la paralizza nel suo letto costringendola a stare immobile (229) fino a farle dire malgrado tutto: Ora mi arrendo completamente. Una resa non semplicemente rassegnata ma grata: Sono così riconoscente di poter stare coricata qui, di poter essere tranquillamente malata e che mi si voglia curare. Prima devo guarire bene, altrimenti sarò solo un peso per una compagnia. Credo proprio di essere un po’ malata dalla testa ai piedi, stretta in una corazza di debolezza e di vertigine (231).

L’ultimo periodo vissuto da Etty a Westerbork ce la mostra piena di una energia fisica e spirituale del tutto straordinaria: La donna che fa pulizia da Kormann mi ha appena detto: "Lei ha un’aria così raggiante" (73). Eppure questa forza non è per Etty un semplice dono della natura ma il frutto di un lungo e doloroso cammino che va dall’accettazione, passa per la nominazione giungendo infine alla trasformazione della sua debolezza fisica di cui non le sfugge – certo - quella che lei stessa chiama una radice psicologica (184) dei suoi molteplici malanni (cfr. 226). Per questo si costringe ad una cura ben precisa: mi ritiro nella mia pace interiore fintanto che il sangue non mi scorra di nuovo regolarmente nelle vene (184). Con coraggio e con verità Etty cerca di chiamare per nome non solo i suoi momenti migliori ma anche i suoi momenti peggiori anche quando sono legati alla più naturale delle cose che possono succedere ad una donna della sua età: Trovo certo che parlare della mia pancia è ben al di sotto della mia dignità spirituale eppure se io volessi scrivere qualcosa dei miei umori di ieri sera, dovrei innanzitutto notare con molta schiettezza e obbiettività: era un giorno prima delle mestruazioni, e allora sono responsabile a metà (125).

Etty non teme di fare riferimento ad una sorta di resto di masochismo con cui si riesce a celare malamente l’esistenza nella propria vita – quella che si svolge più a livello di pancia e non di testa – di un pullulare di piante velenose che devono essere sradicate. E parlando a se stessa non bada certo a tenere da parte il bastone quando si tratta di andare a curare quella "famosa" radice psicologica dei suoi malanni: E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi. Una persona dev’essere semplice anche nella tristezza, altrimenti la sua è solo isteria (124). Contro quella che definisce la tua mezza franchezza e la tua mezza enfasi (124) Etty prospetta come rimedio due medicine: E vergognati ben bene a cui si aggiunge un simpatico invito peraltro assai ricorrente: Dovresti rinchiuderti in una cella spoglia, e startene sola con te stessa finché tu non sia nuovamente in chiaro e tutte le isterie non ti siano passate (124).

Quando Etty parla di malattia lo fa in riferimento allo stato della sua anima in particolare nel suo rapportarsi a Spier la cui presenza normalmente avvertita come una persona cheguarisce (89) altre volte invece mi fa sentir malata (62). Etty non disconosce mai che il rapporto con Spier – la sua S. come viene sempre e solo indicato nel testo – mi ha resa più ricca ma in qualche modo mi ha inferto un piccolo colpo, una piccola ferita che non è ancora del tutto guarita (43). Una ferita che non guarirà mai ma che pure diventerà per Etty una vera e propria feritoia – soprattutto dopo la morte di Spier – attraverso cui la luce di un senso sempre più adeguato della vita e dell’amore continuerà a fluire così mirabilmente da inondare ogni frammento delle sua vita e delle sue relazioni.

L’esperienza "terapeutica" vissuta in prima persona convince Etty del fatto che, in realtà, tutte le persone hanno bisogno di un contatto carico di una umanità che sia capace di curare. Un atteggiamento che vale nei confronti de i bambini di pochi mesi strappati dalle loro culle nel cuore della notte per essere trasportati verso un paese lontano (129), ma anche – forse ancora di più – per quel ragazzo infelice della Gestapo - dall’ aria così tormentata e assillata, del resto anche molto sgradevole e molle – a cui avrebbe voluto chiedere: "hai avuto una giovinezza così triste o sei stato tradito dalla tua ragazza?". Etty non pose questa domanda ma raggiunse comunque nell’intimo del suo cuore una conclusione: «Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, me che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull’umanità» (102).

Che si tratti della propria punta di isteria, che si tratti delle grida penetranti dei bambini oche riguardi invece persino il proprio aguzzino o più semplicemente del fatto di cominciare a soffrire di insonnia (228) si esige comunque una scelta di campo precisa e netta: cercare in tutti i modi di guarire, di lasciarsi guarire e di aiutare a guarire. Il primo passo in questo cammino faticoso (97) è senz’altro quello di accogliere la debolezza come parte integrante della vita senza farsene paralizzare: Certo però che la mia tristezza è diversa da quello di un tempo. Non cado più così in basso, e nella mia tristezza è già insita una possibilità di ripresa. Una volta, quando ero triste, pensavo che avrei continuato ad esserlo per tutta la vita: ora so che anche quei momenti fanno parte del mio ritmo vitale, e che è bene che sia così (98).

Non siamo inguaribili ma siamo semplicemente in guarigione soprattutto se ci lasciamo raggiungere da quel verso di Rilke che starebbe così tanto bene sulla labbra del Signore Gesù che si aggira tra i portici della Porta delle Pecore: E sentì stranamente uno straniero dire: "Io sono con te"(43): la piscina si trasforma così in un fiume sulle cui sponde«crescerà ogni sorta di alberi» (Ez 47, 12). Anche la nostra vita paralizzata – talora persino paralizzante – ricomincia a fremere quando qualcuno ci chiede: «Vuoi guarire?» e la guarigione comincia con una piccola grande confessione: «Signore io non ho nessuno»… ma mentre lo stiamo dicendo non è più già vero e – dopo trentotto anni – stiamo già guarendo solo per il fatto di avere acconsentito ad una domanda!


Mai, sempre!
Anche per noi risuona la parola del Signore Gesù: «e voi ne resterete meravigliati» (Gv 5, 20), meravigliati del fatto – incomprensibile e inaccettabile per il fariseo che si nasconde del nostro cuore – semplice, nudo ma rivoluzionario che «il Padre infatti ama il Figlio» e che questo amore è talmente e realmente trasformante che Gesù non ha altra scelta se non chiamare Dio «suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5, 18). Tutti i mistici rivendicano questa intimità trasformante in cui e per cui «O Notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata» (Giovanni della Croce, Notte Oscura, 5).
Quale meraviglia è per noi scorrere le pagine lasciateci in eredità da Etty e imbatterci continuamente con la presenza di Dio, di un Dio che non corrisponde a nessuno schema perché li supera tutti: un Dio così presente eppure così imprendibile: «non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io i trovi qui, a questa scrivania così terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre» (167).
Non era forse questa sicurezza del Signore Gesù a rendere furiosi i suoi nemici che vedevano - nella sua intimità con Dio - una minaccia al loro bisogno di controllo e di potere persino sulla intimità altrui? L’invito del profeta «Venite fuori» (Is 49, 9) - che il Signore Gesù riprenderà con forza travolgente davanti alla tomba di Lazzaro (Gv 11, 43) - è l’invito costante a uscire da ogni immagine impositiva di Dio per imparare a sentirci nelle sue braccia come un bambino a cui, sempre e comunque, viene ripetuto: «io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15).
Etty imparerà a vivere e ad amare la vita proprio imparando a riconoscere dentro di sé, nel più profondo di se stessa – fedele eco di tutta quella Mistica del Nord Europa che sta dietro alle più belle "pagine" della Riforma – questa presenza di Dio che abbraccia e custodisce ma che, al contempo, ha come bisogno di essere abbracciato e custodito in una mirabile – caratteristica propria dei mistici – reciprocità di relazione. Così scrive in una delle sue ultime lettere: solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani (148)Per Etty Dio è la realtà irrinunciabile in cui si può giocare al massimo delle sue potenzialità la nostra umanità: Mio Dio, ancora non si rendono conto che tutte le cose di qui sono sabbie mobili tranne te. Mi è sfuggito (112).
Anche per noi si fa urgente l’obbedienza all’invito del profeta: «Venite fuori!». Si fa urgente anche per noi non marcire come Lazzaro nel sepolcro dei nostri schemi preconfezionati su noi stessi, sul mondo, su Dio… bisogna lasciarsi dietro tutto un mondo di convenzioni (116) talora capaci di creare convinzioni così lontane dalla fede pura nel «Signore che consola il suo popolo» (Is 49,13). Per Etty la vita, nel suo essere mistero ed "enigma" (194) diventa il luogo di una rivelazione intima di Dio, così personale da essere necessariamente universale: Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppure provare ad esprimere in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio. Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua – di Spier – : «riposare in se stessi» e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. Ma nulla di meno intimistico e autoreferenziale o, peggio ancora, di ripiegamento: E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio» (201).
Naturalmente si potrebbe tacciare tutto ciò di soggettivismo e persino di panteismo così come si fece, a suo tempo, per Meister Eckart… non mancherebbero le ragioni ma il frutto è tale da costringerci ad un atteggiamento di silenzio e di imitazione. Non siamo lontani dalle dispute contro l’esicasmo e contro ogni forma di vita contemplativa profondamente personale che, anche senza volerlo, rende il rapporto con Dio più grande, maggiormente avvolto dal mistero e sempre meno controllabile o manipolabile dall’esterno.
L’esperienza che Etty fa di Dio è sicuramente eminentemente psicologica ma non per questo illusoria. Nell’esperienza spirituale di Etty il rapporto con Dio è personale, più precisamente da persona a persona e – perfino – attraverso la mediazione delle persone – in modo emblematico quella di Spier – e che ha come frutto naturale un’apertura al mondo: «Eppure ti sono grata perché non mi hai permesso di rimanere seduta a questa tranquilla scrivania, ma mi hai portato in mezzo al dolore e alle preoccupazioni di questo tempo. Un idillio con te in una stanza di studio ben protetta non sarebbe proprio tanto difficile, ora invece è importante che io ti porti con me, intatto attraverso tutte queste vicissitudini, e che ti rimanga fedele così come ti ho sempre promesso» (181).Misteriosamente troviamo nel profondo di Etty la medesima vena aurifera che nutre nella stessa situazione storica la riflessione di Bonhoeffer e di Edith Stein: il dramma del Nazismo è stato il luogo non solo di una Shoah ma anche di una purificazione della nostra immagine di Dio e di una sorta di "progresso" della e nella Rivelazione la cui portata forse non abbiamo ancora misurato abbastanza, soprattutto nella linea della profondità e del rapporto sempre più personale che la relazione a Dio esige.
La lezione di Spier rimane per Etty programmatica per il suo stesso itinerario verso Dio:«In te c’erano tutto il male e tutto il bene che possono esserci in un uomo. I demoni, le passioni, la bontà e l’amore per gli uomini, tutto era in te, cha sapevi tanto capire, che sapevi cercare e trovare Dio. Hai cercato Dio dappertutto, in ogni cuore umano che ti si e aperto – quanti ce ne sono stati -, e dappertutto hai trovato un pezzetto di lui» (198). La ricerca di Dio non può che essere che «infinitamente paziente» (198): paziente in questo quotidiano sensibilizzarsi alla presenza di Dio nell’intimo del proprio cuore e nel cuore degli altri come dell’universo intero. Etty è la prima a meravigliarsene: «Pensare che un piccolo cuore umano possa provare così tanto, mio Dio, possa soffrire ed amare a tal punto. Ti sono così riconoscente perché hai scelto proprio il mio cuore, di questi tempi» (194). Ma perché le visite di questo Dio non passino inosservate è necessario acquisire quella che Etty chiama «una pazienza del tutto nuova» (194) unita ad un dialogo ininterrotto: «Parlerò con te mio Dio. Posso? Col passare delle persone, non mi resta altro che il desiderio di parlare con te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore mio Dio» (194).
Il credere per Etty è frutto di un amore profondo ed è premessa di un amore altrettanto profondo che la rende responsabile della «parte migliore e più nobile dell’uomo che ti ha risvegliata in me» (194), di se stessa e del progressivo ampliarsi della sua anima, come pure responsabile verso il meglio che c’è negli altri. Ma tutto questo non significa altro che sentirsi responsabile di Dio, obbligata a difendere fino all’ultimo la tua casa in noi (169).Tutto questo porterà Etty ad una intimità spirituale che la renderà testimone di una presenza di Dio persino nella bufera più terribile: Una volta, nel cuore della notte. Siamo rimasti solo Dio e io. Non c’è più nessun altro che mi possa aiutare. Non mi sento affatto impoverita, ma ricca e in pace. Siamo rimasti solo Dio e io (232). Come non sentire l’eco, attraverso i secoli, dell’esperienza di un Giovanni della Croce che nel carcere di Toledo - vittima della persecuzione da parte dei suoi stessi confratelli - componeva a memoria – non aveva diritto allo stilo – i suoi intramontabili versi: «In una notte oscura, con ansie, dal mio amor tutta infiammata, oh sorte fortunata!, uscii, né fui notata, stando la mia casa al sonno abbandonata» (Notte Oscura, 1). Quale meraviglia mai per chi ama ma quale scandalo sempre per chi non conosce le vie dell’intimità ma solo i labirinti dell’esteriorità.
La gloria…
Tra i tanti rimproveri del Signore Gesù ve n’è uno che li supera tutti per la sua capacità di toccare la radice di ogni ipocrisia nella nostra esistenza: «E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5, 44). L’esempio del Battista e quello di Mosè aiutano a capire che cosa significhi cercare la «gloria che viene da Dio solo». Da una parte pagare di persona come una «lampada che arde e risplende» (Gv 5, 35) consumandosi inevitabilmente e, dall’altra, la resistenza opposta a Dio stesso – percepito quasi come un tentatore – di avere accesso ad una gloria separata dalla solidarietà con tutto il «popolo che tu hai fatto uscire» (Is 32, 11). Ma la solidarietà di Mosé non è che il frutto maturo della sua fedeltà al "Dio solo" di cui non ha in nessun modo paura.
La grazia dell’elezione, la coscienza di essere in un rapporto particolare con il Signore conduce Mosé, il Battista e – nella pienezza dei tempi – il Signore Gesù a non sottrarsi al destino comune ma a illuminarlo con la loro presenza. Etty si riconosce tra gli eletti – ne aveva la ragioni – ma non si lascia né ingannare né adulare: «Voglio vivere ancora a lungo e voglio condividere il destino riservato a tutti noi …Eppure sono una dei tuoi eletti, mio Dio, perché mi concedi di prendere tanta parte a questa vita, e perché mi hai dato abbastanza forza per sopportare tutto quanto» (178). La coscienza di un accesso particolare al mistero della vita e di Dio per Etty si identifica con la capacità di sopportare di più e non di essere esentata – secondo la logica della gloria del mondo – dalla sofferenza, dalla fatica, dal peso dell’enigma che raggiunge l’acme nel momento dell’agonia di Spier: «ti ringrazio perché tu lasci che poche cose mi passino accanto senza toccarmi» (178).
L’atteggiamento degli scribi e dei farisei – che si annida continuamente nel cuore di ciascuno di noi – è proprio quello di non lasciarsi toccare per una falsa e assai comoda idea di purezza, di santità, di spiritualità (Mt 23,4; Lc 10,31-33). Proprio la percezione di una presenza particolare di Dio nella sua vita induce Etty – non molto differentemente da Mosè – ad opporsi con tutte le sue forze all’idea di una salvezza "particolare" senza gli altri o persino a loro scapito degli: «Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice» (171). Per Etty è chiaro che non tutto ciò che sembra essere salvezza lo sia veramente e che, anzi, può invece essere la "perdizione" di tutto ciò che rende bella e degna la vita. E continua: «questo stare tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingere a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno… e poi questo spingere a me non piace» (171).
Senza mezze misure e in tutta chiarezza Etty contrappone a questo atteggiamento di pseudo-salvezza che taccia senza complimenti dell’epiteto chiaro di indegno,l’atteggiamento che fa onore e che corona di gloria le persone degne di questo nome: Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un poco sull’oceano, stese sul dorso e con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Gli occhi rivolti diritto al cielo e non conficcati morbosamente e tristemente in quello del prossimo a cui ci si aggrapperebbe semplicemente nella speranza che ci renda il suo pezzo di legno. Etty aggiunge a scanso di equivoci due note assai importanti e significative: «Io non posso fare diversamente e ancora Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei propri demoni» (171).
Nel momento in cui il nemico ha un volto preciso e assolutamente minaccioso Etty trova ancora la forza e la lucidità per parlare dei propri demoni che rappresentano l’unico vero nemico che può realmente portare tutta la vita ad un completo fallimento. Per Etty non c’è scampo dall’interiorità: è nel profondo – nell’abisso più profondo – della propria anima che si attua il combattimento ed eventualmente la glori-ficazione: «Molti di coloro che oggi s’indignano per certe ingiustizie, a ben guardare si indignano solo perché quelle ingiustizie toccano proprio loro: quindi non è un’indignazione veramente radicata e profonda» (146).
Un’idea assai chiara per Etty che la ripete in una lettera dicendo: «Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti» (51). Una simile convinzione diventerà per Etty un programma di vita a cui sarà fedele fino alla fine: «Io credo che nella vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori» (27) perfino col minacciare in certo modo lo stesso Dio con quell’atteggiamento ineguagliabile che fu di Mosè che protesta e grida: «se, no cancellami dal tuo libro» (Es 32, 32). Neanche a Dio si potrebbe permettere di disonorare la nostra umanità inestricabilmente legata alla vita di ogni altra creatura risparmiandoci… non è questa la grande rivelazione del Golgota…?!
Per Etty sempre più abituata alla gloria di una intima relazione con Dio, capace di dare senso e significato pieno anche a tempi tanto angosciosi, la cosa più indegna che possa accadere è lo spettacolo – comprensibilissimo ma dis-umano – di persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolvere forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te mio Dio (169-170). L’unica realtà che bisogna salvare è quell’unica realtà che ci può salvare pur nell’esperienza della totale distruzione: «Dio che abita nel cuore dell’uomo come nel suo più proprio territorio» (170). Proprio mentre la vita è minacciata come un gelsomino sciupato dalla pioggia, Etty scrive in un trasporto invidiabile: «Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. E sottolinea: Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure ma ti porto persino – in questa mattina grigia e tempestosa – un gelsomino profumato. Non solo: Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me» (171).
Da chi mai si potrebbe ricevere una gloria così grande come quella di far stare bene lo stesso Dio della nostra vita nella nostra vita? Quale carico più prezioso potremmo portare dentro di noi di questa presenza che ci permette di avere occhi puri per ogni creatura:«Spesso mi sono sentita, a ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare, dappertutto. Dobbiamo essere la nostra propria patria» (206)… la nostra propria gloria tutta e totalmente a bordo della nostra minuscola vita.
L’olio della mitezza
Mentre la Pasqua si fa sempre più vicina si fa sempre più forte e chiaro che non è una fatalità o un incidente di percorso bensì un evento a lungo preparato nel cuore e attraverso i passi del Signore Gesù: «nessuno riuscì a mettergli le mani addosso perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30). Nessuna pasqua – né quella del Signore Gesù né la nostra – potrebbe compiersi senza una remota e profonda preparazione in cui maturi il dono della propria vita libero e totale… fino a dire «sono io… prendete me» (Gv 18,8).
Proprio mentre «gli empi dicono tra sé» (Sap 2,1) «tendiamo insidie al giusto» (Sap 2,12) illudendosi di avere presa e potere sulla sua vita… il giusto non fa altro che affinare ulteriormente «la mitezza del suo carattere» (Sap 2,19) fino a rendersi im-prendibile. L’olio della mitezza non può che rendere imprendibili come l’olio rendeva più difficile abbattere nella lotta un gladiatore. Anche noi siamo chiamati a vivere la nostra personale Pasqua! Anche a noi tocca il compito di renderci impermeabili al male attraverso quell’olio di mitezza e di dolcezza capace di renderci immuni ad ogni empio ragionamento e vivendo, invece, nell’umiltà dell’evidenza.
L’ultima parola del Diario di Etty suona come parola ultima sulla sua intera vita: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite» (239). Ma la preparazione di questo balsamo - che non solo fu di dolce sollievo a quanti incrociarono Etty sul loro cammino verso lo sterminio ma lo è ancora oggi per molti di noi – ha esigito la lunga preparazione per essere infine «una composizione aromatica secondo l'arte del profumiere, salata, pura e santa» (Es 30,35). Il 5 luglio 1943 mentre Etty viene presa dalla voglia di farla finita e scrive: «Ogni tanto mi viene voglia di preparare di nascosto lo zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non deve neppure cercare di rendersi la vita troppo facile» (90), subito annota la conclusione di uno dei suoi compagni di Westerbork che, ormai pronto a partire, ci lascia intravedere l’opera che si va segretamente compiendo anche nel cuore di Etty: «L’ho aiutato a fare i bagagli e ho ancora attaccato qualche bottone al suo abito, lui diceva tra l’altro: In questo campo mi sono addolcito, tutte le persone sono diventate uguali per me sono steli che si piegano sotto la tempesta e si coricano sotto l’uragano». Ha anche detto: «Se sopravviverò a questi tempi, sarò una persone più profonda e matura; e se morirò, morirò da per persona più profonda e matura» (91-92).
La conclusione del Diario, le sue ultime lettere e il resoconto della sua partenza da parte dell’amico e "compagno d’armi" ci assicurano che fu questo il grande cammino di Etty: un cammino di addolcimento, una sorta di crescita nella capacità di essere plasmabile fino ad essere spalmabile come lo può essere un unguento preparato a lungo e a regola d’arte. La donna irrequieta, avida e instabile che passa da un abbraccio all’altro senza essere ancora capace di amare diventa – pagina dopo pagina – una sorta di olio capace di aprire e accompagnare dolcemente verso il compimento la propria e l’altrui vita in modo mirabilmente umile, impercettibile eppure efficace: «Quanto sono grandi le necessità delle tue creature terrestri, mio Dio. Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti e d’un tratto viene fuori tutta la loro pena, e si scopre una povera creatura che non sa come vivere» (202).
E davanti a questo bisogno di accoglienza, di cui Etty è stata la prima beneficiaria nel suo rapporto con Spier, ecco una sorta di impegno umile ma forte al contempo: «Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per fare questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano, un esperto psicologo: rapporti con padre e madre, ricordi giovanili, sogni, sensi di colpa, complessi di inferiorità, insomma tutto quanto… - e aggiunge sempre in forma di preghiera – In ogni persona che viene da me io mi metto ad esplorare con cautela» (202).
Il cuore di Etty si offre come luogo di rifugio e di guarigione in una delicatezza che sarà la grande conquista della sua vita. Sapienza e delicatezza sono il frutto di un lungo cammino verso la vera umiltà e mitezza del cuore: «Una volta mi sentivo in dovere di concepire molti pensieri geniali al giorno, ora mi sento non di rado come una terra incolta su cui non cresce assolutamente niente, ma su cui si stende un cielo alto e tranquillo» (139). Questa autocoscienza redenta nella consapevolezza di un nulla – il proprio – su cui si stende tutta la grandezza di Dio stesso conduce Etty verso una capacità - assai rara - di abitare la propria anima fino a renderla completamente fedele alla sua propria vocazione di creare relazioni: «Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di rocca. E’ una cosa molta severa e dura in senso veterotestamentario, ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta della sue dita sfiorava le mie ciglia».
Etty cammina verso se stessa, verso la profondità della propria anima che diventa sempre di più il luogo autentico della sua vita ma questo non si attua fuori dalla storia ma dentro e come lievito buono che accetta di perdersi in essa (Mt 13,33). Senza illusioni Etty scrive:«Certo è il nostro annientamento! Ma sopportiamolo con grazia» (230). Sopportare con grazia il proprio annientamento non può che rendere vano ogni progetto di annientamento. Questo "sopportare con grazia" diventa per Etty una sorta di vocazione - proprio quando si deve confrontare con il terrore di donne e ragazze che piangevano silenziosamente – e davanti alla cui disperazione reagisce con uno struggente desiderio: «a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti e pensavo: Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca. Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento» (230).
Etty alla fine non vuole essere altro che un cuore che pensa all’interno di un sistema che tenta proprio di annientare l’umanità privandola – molto prima di eliminarla fisicamente – della capacità di sentire e quindi in certo modo di soffrire: «non vogliamo pensare», «non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze» (230). Davanti a questa deriva dell’umanità da cui è circondata, Etty si pone come una diga che accoglie, raccoglie e instrada i frammenti di umanità devastati verso un ulteriore compimento: «A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per i corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po’ diverso ma in fondo è uguale alle altre, di ognun si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio» (202).
E con quale olio, con quale crisma potremmo mai consacrare ognuna di queste case a Dio? Non sarà forse il balsamo delicato e penetrante dell’invisibile ma efficace olio della nostra mitezza - la virtù dei forti - di quanti hanno ridotto in polvere ogni inutile durezza: «io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono così tante case vuote, te le offro come all’ospite più importante» (202) delicatamente…! Ma quanto ancora ci resta da macerare in quest’olio capace di esaltare infine le qualità di ogni pianta, di ogni pietra, di ogni riflesso degli astri sulla nostra povera terra… lasciamoci andare, lasciamoci marcire, lasciamo che si esalti attraverso di noi ciò che è più grande di noi stessi nel mortaio e nell’alambicco del nostro cuore. Prepariamoci all’Ora in cui ci sarà richiesta solo una goccia di mite dolcezza, profondo e maturo balsamo per molte ferite… a cominciare da quella che segretamente sanguina dentro – nel più profondo – di ciascuno di noi. Quale altare e quale tempio più adatto per un Dio trafitto come il nostro Dio?!
Ad occhi aperti
Attorno al Signore Gesù la baruffa aumenta sempre di più: «e nacque dissenso tra la gente riguardo a lui» (Gv 7,43). Aldilà degli apprezzamenti - «mai un uomo ha parlato come quest’uomo» (Gv 7,46) – e dei rifiuti netti - «studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea» (Gv 7,52) – rimane la profezia che si compie pienamente nel consapevole e libero cammino del Signore Gesù verso la sua Ora: «Il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; allora mi ha aperto gli occhi sui loro intrighi» (Gr 11,18).
Il Signore Gesù ci spiana la via verso la pienezza perché ci indica il modo di portare a compimento il nostro cammino ad occhi aperti, senza stordimento alcuno e in piena coscienza: «Si vedono molti visi sfiniti, pallidi e sofferenti. Un altro pezzo del nostro campo è stato amputato, la prossima settimana toccherà al prossimo pezzo, qui si vive così da più di un anno, settimana dopo settimana» (143) dopo questo primo sguardo riassuntivo Etty apre ancora di più i suoi occhi e aggiunge: «non sappiamo niente del loro destino. Forse lo sapremo presto, ognuno a suo tempo, perché quello sarà anche il nostro destino – non ne dubito nemmeno un istante» (144).
La chiarezza di ciò che sta succedendo non paralizza Etty né tanto meno la rende assolutamente sensibile a qualsivoglia forma di illusione. Da parte sua cerca di affrontare il momento presente con tutta la presenza possibile e, al contempo, animata da un dovere di registrazione del reale cerca di assicurare che nulla vada perso: «Ho già detto altre volte che non ci sono parole o immagini per descrivere una notte come questa. Eppure devo annotare qualche cosa per voi – ci si sente sempre occhi ed orecchi di un pezzo di storia ebraica, talvolta si prova anche il bisogno di essere una piccola voce». E come sempre la sua piccola esperienza diventa emblematica e per questo, in certo modo, eterna e un prezioso bagaglio per l’umanità nella sua interezza: «Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti di questo mondo e ognuno deve portare il proprio sassolino, per farlo combaciare con gli altri del mosaico che a guerra finita coprirà tutta la terra» (129).
Mentre la vita è in pericolo lo sguardo del cuore di Etty va lontano, sempre più lontano verso il futuro – che materialmente non c’è – e verso tutta la terra che si riduce al mezzo chilometro quadrato circondato da filo spinato. Ma in Etty il futuro è la forma reale del presente che – se vissuto nella giusta modalità – ha comunque un avvenire: «In futuro voglio visitarli tutti , uno per uno, gli uomini che a migliaia sono finiti in quel pezzo di brughiera, passando per le mie mani. E se non li troverò, troverò le loro tombe. Non potrò mai più rimanere tranquillamente seduta alla mia scrivania. Voglio andare per il mondo, vedere coi miei occhi e sentire coi miei orecchi com’è andata a tutti coloro che abbiamo fatto partire» (228).
Le persone che passano per le sue mani, il dolore che passa sotto i suoi occhi diventa per Etty parte irrinunciabile della sua stessa intima esistenza. Ma come hanno potuto i suoi occhi non solo vedere tanto dolore ma, persino, amarlo talmente fino a desiderare di non perderlo di vista e quasi di rincorrerlo attraverso lo spazio e il tempo come la cosa più amata? L’unica risposta possibile a tutto ciò è l’esperienza fondamentale di Etty: si è lasciata guardare dentro il proprio cuore e ha imparato a guardare con gli occhi del cuore. L’esperienza della propria interiorità è la sola a permettere di sopportare l’inenarrabile con una grazia e una dolcezza imparata a lungo in ogni momento della vita: «Ecco, l’albero è sempre lì, l’albero che potrebbe scrivere la mia biografia. Però non è più lo stesso albero – o forse sono io che non sono la stessa persona?» (195).
Aver imparato a farsi guardare da un albero, ad amare una primavera e a lasciarsi accarezzare da un bocciolo di rosa e, persino, da un solo petalo di essa… ha messo Etty davanti al grande passo della sua vita: «Bisogna saper sopportare i tuoi misteri» (195). Ed è proprio questo sguardo del cuore posato sempre più delicatamente sul mistero di un Dio circondato dai suoi massimi enigmi a dare ad Etty la giusta modalità di essere presente alla storia… con la stessa soavità di quell’albero che avrebbe potuto scrivere la sua biografia e testimoniare del suo processo interiore di crescita.
Ma vivere con questo sguardo sempre più limpido e puro non è cosa facile: «il medico diceva ieri che ho una vita interiore troppo intensa, che vivo troppo poco sulla terra, anzi, che vivo quasi ai confini col cielo, che il mio fisico non può reggere a tutto ciò». Etty non esclude che il medico abbia ragione ma pure si chiede: «E perché poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perché non ci si potrebbe vivere? E si corregge: Il cielo vive dentro di me!» (195). Ma è proprio in questo cielo, in cui la sua anima si va inesorabilmente trasformando, che Etty si ritrova misteriosamente capace di cogliere con la soavità dello specchio quel dolore che sarebbe altrimenti insopportabile perché indegno dell’umanità:«la nostra pazienza aumenta… e se si distruggono i preconcetti che imprigionano la nostra vita come inferriate, allora si libera la vita e la vera forza che sono in noi, e allora si avrà la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità» (224).
Etty non rinuncia a toccare la storia né tanto meno accetterebbe mai di chiudere gli occhi davanti al reale: «Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti… e così questi occhi scuri col loro sguardo buono dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivo, allora tuta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi» (165). Ma dove mai questa forza potrà essere attinta se non nella preghiera, nella calma, nell’interiorità continuando «indisturbati a percorrere i vasti e sgombri paesaggi del proprio cuore» (222)? Vedere col cuore – lo insegnava già Giovanni Climaco – e non preoccuparsi di ciò che si dice di noi dall’esterno ma di ciò che viene testimoniato all’interno della nostra casa interiore da cui si devono tenere, accuratamente, lontane «le molte preoccupazioni come si farebbe con dei pericolosi parassiti» (161).
La sfida è lasciar dire e continuare a porre su tutto e tutti uno sguardo puro, vero, vivo. Si tratta di lasciare che venga preparato persino il patibolo… interiormente pronti a salirvi ad occhi aperti avendo il coraggio di rifiutare persino l’aceto mescolato a fiele con cui si vorrebbe stordire la mente a annebbiare la vista. Una parola dentro potrà fluire come sorgente di pace: «a te ho affidato la mia causa» (Gr 11, 20). Sì cercheranno di abbattere«l’albero nel suo rigoglio» (Gr 11,19)… sì cercheranno di farlo così ciecamente da pensare di averlo stroncato… e invece lo si renderà testimone di una vittoria più grande quella della libertà di non essere ingabbiati in nessuna "casa" (Gv 7,53) che non sia quella preparata per me dall’eternità: «è proprio come se la vita mi fosse divenuta trasparente e così anche il cuore umano, e io vedo e vedo e capisco sempre di più, e dentro di me sono sempre più in pace» (160). Donami, mio Dio, occhi di pace: pace negli occhi e occhi solo per la pace!
Spaccati in due
Il castigo «ti spaccherà in due» (Dn 13, 55.59) con cui Daniele punisce ciascuno degli anziani «invecchiati nel male» (Dn 13, 52) non è altro che il modo per evidenziare il delitto di questi uomini che, nonostante tutte le apparenze , non hanno «il dono dell’anzianità»(Dn 13, 50) ma sono inadeguati a se stessi e perfino rabbiosi per una giovinezza che non hanno più fino ad inventarne una da condannare: «quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei» (Dn 13, 57). Noi sappiamo che nessun giovane si è introdotto nel giardino di Susanna, ma dobbiamo riconoscere, al contempo, che i due vecchi si erano nascosti nell’intento di far finta di essere giovani nell’intimità come fanno finta di essere anziani davanti al popolo: spaccati in due non potranno che essere spaccati in due.
Ma Daniele salvando Susanna conclude: «così facevate con le donne di Israele ed esse per paura si univano a voi» (Dn 13,57). Con queste parole ci viene svelato il nome proprio della castità: il non avere paura nemmeno davanti alla morte. E il Signore Gesù non esita ad affermare per negare al contempo svelando il tranello sempre in agguato nel cuore ipocrita dell’uomo – nel nostro cuore - «nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera» (Gv 8,17). Ma attenzione bisogna avere prima le due "persone" che abbiano raggiunto questa "personalità" sempre unica. Bisogna aver raggiunto l’anzianità del giovane Daniele e l’abbandono fedele alla verità di se stessa davanti a Dio della casta, libera e sovrana Susanna: «Dio eterno che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai…» (Dn 13,42-43).
Per certi aspetti Etty ha condiviso – solidale col suo popolo e con tanti altri – quella tristissima processione che conduceva Susanna al supplizio. E non possiamo che ammirare anche in Etty – e attraverso di lei in tanti altri – una sorta di accoglienza del reale: «il letto traballa come una nave nella tempesta. E di notte ci sono topi che attaccano le provviste e i letti in una situazione un poco inquietante» (30) eppure nessun moto di ribellione verso Dio ma l’accoglienza piena e coraggiosa del fatto che «tutto avviene proprio secondo leggi imperscrutabili».
Etty nel suo realismo non chiude gli occhi sulla realtà e per certi aspetti la vive un po’ con gli occhi e il cuore del giovane Daniele quando scrive: «Ci si vergogna di essere stati presenti senza averlo potuto impedire» (47)Questa frase di rammarico è posta proprio nel contesto che Etty definisce a più riprese «il capitolo più triste della storia di Westerbork certamente quello dedicato agli anziani» (46). Proprio di questi anziani da una parte Etty coglie con grande compassione i loro gesti smarriti e i loro visi spenti (47),ma di coloro da cui ci si aspetterebbe una anzianità di cuore e una maturità Etty registra tristemente la verità che proprio Westerbork mette a nudo: «Su quell’arido pezzo di brughiera naufragano anche diversi protagonisti delle vita culturale e politica delle grandi città. Tutte le scene che li circondavano sono state bruscamente abbattute con un solo colpo potente, ed essi stanno ancora un po’ tremanti e spaesati» (50).
Terribile epilogo di una vita sarebbe non lo sterminio ma lo s-mascheramento del fatto che la propria persona sia rimasta solo e solamente una maschera/(persona in latino)… non un maschera per imparare lentamente ma decisamente a ricoprire il proprio ruolo fino in fondo ma solo e solamente una maschera: «La loro ben forgiata armatura di posizione, reputazione e proprietà s’è sfasciata, e ora essi sono rivestiti soltanto dell’ultima camicia della loro umanità. Si trovano in uno spazio vuoto delimitato da cielo e terra, dovranno riempirli da soli con le loro potenzialità interiori – là fuori non c’è niente» (51).
Tutta la vita di Etty fu invece un deciso lavoro per invecchiare bene e in solitudine – non in modo fusionale e in-individuato come quei due vecchi che Daniele si preoccupò di separare accuratamente -: «A volte mi sento proprio come una pattumiera: sono così torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso di inferiorità. Ma in m c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno» (53). Lungi dal giocare a mettere su una sorta di scena sulla cui ribalta cercare di far apparire la propria persona nella migliore luce possibile, Etty ingaggia una lotta profonda con il suo cuore e nel suo intimo. Senza mezze parole e senza mezze misure ingaggia una «lotta contro la propria sensualità» (37) come pure sa di dover cominciare a lottare contro il mio desiderio di avventure e contro la mia curiosità erotica. Con la sua coraggiosa capacità di dare un nome preciso al suo vissuto Etty non esita a scrivere:«Debbo anche vincere quella paura indefinita che mi porto dentro. La vita è difficile davvero è una lotta di minuto in minuto (non esagerare tesoro) ma è una lotta invitante» (38). E ogni volta che questa lotta conosce qualcuna delle sue epopee annota: «E’ stata un’altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più» (48).
La cosa fondamentale per Etty è maturare, è crescere, è attraversare la vita senza finzione ma nel coraggio di una verità su se stessi talora assai dura: «Sto proprio rischiando di rovinare questa amicizia con l’erotismo» (47). Non servirebbe a nulla mentire a se stessi come dei bambini viziati, non ci si può auto-mentire meno di quanto si possa mentire agli altri: «Certo che ero stata toccata nei miei istinti erotici!» (40).
Sempre onesta con se stessa nella speranza di poter, onestamente e amorevolmente, occupare il suo posto nella storia Etty consuma le sue forze migliori nel cercare di fare unità nel proprio cuore e nella propria vita: «Le numerose contraddizioni della vita devono essere accettate, tu invece vorresti fonderle in un unico insieme e in qualche modo semplificarle dentro di te, così ti semplificheresti pure la vita. Ma il fatto è che al vita è composta di contraddizioni, che queste vanno accettate tutte come sue parti integranti, e che non si può accentuarne una a spese di un’altra. Lascia che il tutto giri e forse diventerà un unico insieme» (58). Etty è certa che questo lavoro di unificazione interiore è l’unico degno di assorbire le sue migliori energie e, forse, proprio per questo non riuscirà mai a scandalizzarsi o spaventarsi eccessivamente per quello che capita fuori di lei e attorno a lei: è così presa dalla grande battaglia che si attua nel suo cuore…!
Solo questa unificazione interiore – dura e lunga – può condurre non solo all’unificazione ma pure – e questo è più mirabile – ad una compagnia interiore in cui Animus e Animasono interiorizzate nell’intimo del cuore e non più in perenne ricerca l’uno dell’altra all’esterno: «D’un tratto avevo avuto la sensazione di non essere sola ma "in due": come se fossi composta di due persone che si stringessero affettuosamente e che stessero bene così, al caldo. Un forte contatto con me stessa e perciò un buon caldo dentro, un senso di autosufficienza. Chiacchieravo animatamente fra me e me e trotterellavo con gran piacere…» (59)
Quel misterioso piacere provato anche minimamente ma fortemente da Adamo quando era solo nel Paradiso, solo ma già com-portante Eva nel suo fianco, nel più profondo di sé (Gn 2). Ma Adamo non seppe avvertire questa presenza così intima e confuse l’appello all’interiorità con una condanna alla solitudine… Dio non poté che lasciarlo placidamente addormentare per dare forma visibile ed esterna a quella dolcezza che portava dentro come un favo il suo miele … cosa avrebbe potuto fare Dio?!
… Da allora una grande lotta attraversa il nostro cuore, una grande nostalgia ci abita, un grande compito ci attende: quotidianamente ritrovare e ricreare l’equilibrio tra solitudine e relazione, tra castità e intimità… ma possiamo sperare di ritrovare la pace e la gioia nella capacità di essere veri in noi stessi e discreti con i nostri compagni di viaggio: «vivo nella comunità ma anche molto per me stessa e questo mi riesce benissimo, sebbene qui si stia addosso e sopra e sotto e in mezzo agli altri» (147)… insieme ma non spaccati, soli ma sempre almeno in due… ma per tutto questo possiamo contare solo e solamente sull’«intelligenza dell’anima» (236).
Guarda lassù
Mentre il viaggio di Gesù verso il compimento si fa sempre più deciso attorno a lui –come serpenti sibilanti – si scatenano i sospetti e le domande: «Tu chi sei?» (Gv 8,25). Gesù obbliga i Giudei a porre questa domanda… loro che solitamente sanno tutto… di tutti… sempre! I Giudei del tempo di Gesù – noi stessi! – non sono diversi da quelli che camminavano nel deserto: «il popolo non sopportò il viaggio» (Nm 21,4). Quando il viaggio, il cammino, la fatica dell’andare avanti ci diventa pesante ecco che il nostro sguardo si appiattisce su quel prossimo passo che dovremmo fare e che non abbiamo più voglia di fare… o paura di fare. Ed ecco che «il Signore mandò serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero di israeliti morì» (Nm 21,6).
Sempre tra noi, in noi ci sono serpenti velenosissimi che rischiano di ucciderci con il veleno dell’immobilità e della paralisi. Animali pericolosissimi i serpenti che ci obbligano a guardare sempre per terra costringendoci in certo modo a condividere la loro propria maledizione «sul tuo ventre camminerai e povere mangerai» (Gn 3,14). Il veleno del serpente è la paura di ogni passo ad ogni passo: il viaggio dunque diventa estenuante. Ma ecco che il Signore trova una soluzione: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita» (Nm 21,8).
Nel campo di Westerbork – come in ogni "campo" della vita – il grande veleno da cui si può essere uccisi è proprio quello di farsi ridurre a non avere più occhi per il cielo acconsentendo a delle "vite impoverite… povere e aride vite" ogni qual volta si arriva a dire: «una volta avevo sempre la casa piena di fiori ma ora non ne ho più voglia» (221). Etty scrive con un certo umorismo: «Gli ebrei nel deserto, è un paesaggio che conosciamo bene» (86) e con ancora più grande realismo smaschera il lavoro di dis-umanizzazione portato avanti dalla macchina nazista: «Stanno giocando un bel giochetto con noi, ma noi lo consentiamo, e la nostra vergogna rimarrà incancellabile per tutte le generazioni future» (94). Per Etty giorno dopo giorno si fa sempre più evidente il gioco perverso che sta alla base dello sterminio e le diventa sempre più chiaro che il preoccuparsi della vita riducendosi alla sopravvivenza significa far vincere questa terribile logica a cui «bisogna reagire, bisogna sapersi isolare da quel chiasso sterile che si diffonde come una malattia contagiosa» (221). Da parte sua tutto lo sforzo è quello di rimanere fedele a se stessa e al suo viaggio interiore: «A volte quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che scorrono da una profonda emozione e riconoscenza» (122).
Mentre la terra fruibile per gli ebrei diventerà sempre minore, a causa delle restrizioni nei loro confronti, il cielo diventerà sempre più ampio e più importante. Etty annota uno stralcio tratto da una lettera di suo padre «nel suo umorismo inimitabile: Oggi è cominciata l’era delle non- biciclette… non dobbiamo più temere che le nostre biciclette vengano rubate. Per i nostri nervi è un grande vantaggio. Anche nel deserto abbiamo dovuta farne a meno, per ben quarant’anni» (132). Ed Etty in certo modo continua ad imparare la grande lezione del deserto: guardare sempre avanti senza fermarsi e guardare il cielo come amava fare il padre Abramo a cui Dio non trova di più bello da dire se non«conta le stelle!» (Gn 15,5). Dopo l’inevitabile momento di sconcerto Etty ritrova forza e decisione: «si può "lavorare" alla propria pace interiore, e continuare ad essere produttivi e fiduciosi dentro di noi malgrado le paure e le voci che circolano. Che possiamo costringerci ad inginocchiarci nell’angolo più remoto e tranquillo del nostro essere, e rimanerci fintanto che su di noi non si stenda nient’altro che un purissimo cielo» (222).
Questo purissimo cielo a cui faceva riferimento già Kant quando diceva «la legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi», non è per Etty che il riflesso della stessa terra, quasi in una sorta di inversione dell’approccio platonico del reale. Questo sguardo al cielo è per Etty non una fuga dalla terra ma un più profondo radicamento in essa, nel suo fango mortifero: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so!» (138). E detto questo il suo sguardo invece di essere"amareggiata" si fa più profondo: «La vita, la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi – il dramma del deserto è quanto mai presente – estenuati nel camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto» (139).
Guardare in alto significa per Etty sempre guardare profondamente tutto e ogni aspetto della vita senza cercare la strada più facile neanche quella di una morte più facile. Per lei l’inasprirsi della prova e il chiarirsi del destino diventano il luogo di una discesa nel mistero più profondo di se stessa: «È vero ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno e la terra e la via e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori, ma abbiamo tutto in noi stessi… e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo» (139). Etty è ben conscia che «per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono le piuttosto le mille preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti» (170). Davanti al rischio di cadere nella trappola della mille preoccupazioni Etty si auto-impegna: «oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto della tua giornata e rendila fruttuosa» (170).
Quest’adesione al momento presente e questa capacità di fare continuamente ritorno al cielo del proprio cuore è per Etty l’unico modo per guarire dal morso dei parassiti e del veleno dei serpenti. Guardare in alto significa sempre guardare nel profondo (cfr Lc 5,4) di se stessi per trovarvi la casa di Dio in noi che è l’unico cielo degno di questo nome: «Se vuoi proprio guarire devi vivere diversamente: devi tacere per giorni interi e rinchiuderti in camera tua e non lasciare entrare nessuno, è l’unico modo» (231). Nella solitudine si potranno recuperare quegli «occhi incantati» (232) capaci di leggere nei cuori, di sondare le profondità rispecchiando lo stesso cielo come «occhi azzurri dolci e sognanti» (234) a cui tutto diventa chiaro: «era proprio come se la vita mi apparisse altrettanto chiara e trasparente nei suoi mille dettagli, nelle sue svolte e nei suoi movimenti. Come se avessi davanti un oceano e ne potessi distinguere il fondo, guardando attraverso l’acqua trasparente come cristallo». Tutto si ricongiunge nella pace: «Sei seduta per terra in un angolino della stanza dell’uomo amato, rammendi delle calze e allo stesso tempo sei seduta sulla riva di un mare immenso, e questo mare è così limpido e trasparente che puoi distinguerne il fondo. A un certo momento tu senti la vita così ed è indimenticabile» (192-193).
La vita è possibile solo per coloro che osano levare lo sguardo verso l’alto che è tanto più altro quanto è più profondo. La croce di Cristo vuole essere per noi proprio questa speranza radicale e radicata pur nella disperazione strisciante. Quando il veleno cerca di paralizzarsi e di arrestare il cammino non ci resta che fidarci di una parola: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete» (Gv 8, 28). Che non tocchi anche a noi il rimprovero del maestro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù» (Gv 8, 23). Camminiamo con volto ben fiero e levato e facciamo rumore col nostro passo svelto e sicuro: il serpente fuggirà! Del resto Etty ce lo testimonia: «Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata» (172).






ETTY HILLESUM 4






Fratel MichaelDavide
Etty Hillesum: Dio matura. 
Un viaggio in quaranta tappe 
Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2005



Ma se anche non…

Siamo di fronte al manifesto della libertà! I giovani che dicono al re con s-frontatezza: «Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dei» (Dn 3,18) e Gesù che s-frontatamente dice «la verità vi farà liberi». Non c’è verità e non ci può essere libertà che nella custodia e nell’incremento della vita: «Ma intanto cercate di uccidermi» (Gv 8,37). La verità come fonte di libertà non può mai ricattare l’altro e chi è nella verità e nella libertà mai potrà piegarsi a nessun ricatto anche a costo della propria vita… eh sì della propria vita e non di quella degli altri per affermare se stessi o fuggire dalle proprie paure e dai propri fantasmi.

In realtà Nabucodonosor – e non solo lui – vive nel terrore di scoprire di essere in realtà piccolo e che ci possano essere un Dio e degli uomini - che lo servono e lo adorano - i quali non saranno mai nelle sue mani: «Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?» (Dn 3,15). E questi giovani con la loro risposta vera e libera si dimostrano all’altezza di Dio, del Dio vivo e vero assolutamente incommensurabile e im-prendibile.

Questa marcia verso la libertà attraverso la coltivazione della verità di se stessi nel più profondo di sé, fu il grande travaglio della vita di Etty continuamente attenta a poter – nonostante il lento processo interiore di maturazione e il tremendo aggravarsi delle minacce esterne – dire: «Di fuori non cambia nulla, naturalmente, ma dentro sono più libera» (76). Continuamente Etty deve confrontarsi e sottrarsi a quell’«istinto di conservazione» (147) che comprensibilmente sembra conquistare e affermarsi come logica nel campo di Westerbork. Ma proprio quando questo spazio sempre più limitato e limitante cerca di imporsi come negazione di libertà e come insulto alla verità dell’essere uomini in un mondo creato per la vita, si fa urgente – unico baluardo alla barbarie – fare appello alla propria anima capace di interpretare – animare – un reale sempre più insostenibile: «E per il resto: diversi suicidi stanotte prima che partisse il treno, con rasoi ecc…eppure stamattina mentre mi lavavo insieme con una collega, le ho detto dal profondo del cuore pressappoco così: I domini dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppo importanza, io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà, e non c’è nessuno che mi può fare veramente del male» (80).

Etty vive sempre di più e sempre più profondamente regalmente e principescamente nei«domini dell’anima!» Questo però non toglie tutto il peso e il fardello della materia del suo vivere che non è altro che un tenere «duro da una parte e dall’altra del filo spinato» (116).Tutto è assai difficile eppure non impossibile: «Quando mi sveglio alla mattina mi sento come dentro un bozzolo – è un ricco risveglio sai! Ma poi comincia a volte una piccola passione» (117). E così conclude e commenta continuando la sua lettera all’amica Maria Tuinzing: «Sai, se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi alle apparenze come a pittoreschi accessori che non intaccano il grande splendore (non mi viene in mente un’altra parola) che può essere un parte inalienabile della tua anima – allora è proprio una situazione disperata» (117).

Ma come riuscire ad avere accesso e a dimorare stabilmente in questa "parte inalienabile" della propria anima fino ad essere capaci di sfidare la morte come il Signore Gesù, come i giovanetti? Un primo passo è proprio quello di non dare troppa importanza alla propria vita come numero di giorni e atti compiuti e segni lasciati: si tratta di maturare un’umiltà che sola può generare quella libertà come indice di verità. Bisogna autocomprendersi in un mistero ben più grande del nostro piccolo grande mistero personale: «c’è bonaccia di nuovo… su di me cala un velo attraverso cui la vita filtra più mite, e spesso più ridente. Sento allora di essere tutt’uno con la vita. Inoltre: che non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente ed eterna – e se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente, ed eterna corrente, che è appunto la vita» (86).
La finale del testo di Daniele dice che l’angelo «rese l’interno della fornace un luogo dove soffiasse un vento di rugiada» (Dn 3, 49). Come poteva essere diverso? Nel cuore di questi giovanetti la paura era stata vinta dalla gioia di essere fino in fondo fedeli a se stessi "anche se" (Dn 3,18) Dio non fosse intervenuto, anche se Dio non intervenisse non sarebbe mai possibile cambiare opinione sul mistero che avvolge la nostra vita e la stessa vita di Dio come una grande vela. Laddove Nabucodonosor e i Giudei cercano di impaurire perché impauriti di non essere così potenti come hanno bisogno di ritenersi… i giovanetti, Gesù, Etty possono dire: «Nel mio caso funziona sempre dall’interno verso l’esterno, mai viceversa. Di solito le disposizioni più minacciose – e ce ne sono parecchie attualmente – vanno a schiantarsi contro la mia sicurezza e fiducia interiori, e una volta risolte dentro di me, perdono molto della loro carica paurosa» (121).
Bisogna risolvere dentro di noi la paura – compito non facile – fino a trasformare l’internodella fornace in spazio di cuore e non il cuore in spazio di fornace. Ma per questo – come per e nell’amore – c’è bisogno di pazienza, sono necessarie tante e varie «tappe per arrivare a questo scivolare dolcemente nella e attraverso la vita: ecco una persona deve avere pazienza. Il tuo desiderio dev’essere come una nave lenta e maestosa che naviga per oceani infiniti, e non cerca un luogo in cui gettare l’ancora… e d’un tratto, inaspettatamente, lo trova per un momento» (106).
Ma ognuno di questi momenti in cui ciascuno trova un poco il suo porto non sono che lo stimolo e la forza per navigare ancora. Questo vivere al livello profondo della propria anima, in una fedeltà alla verità di se stessi libera da ogni minaccia esterna permette a chiunque si trovi in una situazione di testimonianza/martyria di poter «dire: è come se mi librassi invece di camminare come se non vivessi dentro la realtà, come se non sapessi cosa sta succedendo» (156). Eppure «avevano acceso al massimo la fornace» (Dn 3,22) nondimeno «Essi passeggiavano in mezzo alle fiamme» (Dn 3,24). Ad Etty – a noi – non resta che dire e ripetere nell’intimo del nostro cuore: «E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza imprendibile» (171)…libera e leggera come una nave le cui vele sono gonfie di libertà… di Dio: «Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17).
Quando ti metterai in viaggio per Itaca,
devi augurarti che la strada sia lunga.

Soprattutto non affrettare il viaggio;
fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco,
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
(C. Kavafis, Itaca)
Gioia senza inizio
Il Signore Gesù riesce a parlare della gioia in un contesto di morte e di opposizione violenta alla sua persona: «Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Molto bello cogliere in Abramo questa capacità di esultanza e di gioia che si fonda sull’accoglienza di un Dio che arriva persino a cambiare il suo nome: «non ti chiamerai più Abràm ma Abraham» (Gn 17,5). La gioia radica sempre in un atteggiamento di disponibilità totale al mistero della vita e a tutte le sue sorprese. La tristezza – come spiegano i santi Padri – è sempre il segno e il frutto di un attaccamento ai proprio parametri e ai propri progetti. Il Signore Gesù svela ai Giudei il mistero del suo mistero dicendo «Prima che Abramo fosse, Io sono» (Gv 8,58) e rivela a ciascuno la via della vita e della gioia: «Se uno osserva la mia parola non vedrà la morte»(Gv 8,51).
Come per Abramo, alle prese con la sua infecondità, così ciascuno di noi rischia di appiattirsi sulle proprie difficoltà perdendo il contatto con un mondo più grande di noi stessi nella consapevolezza che la vita ha delle risorse inesauribili a cui bisogna saper attingere: «La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiati ed estraniate da tutti gli amici di prima. Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita» (41).
Come nell’espereienza di Abramo così pure un quella di Etty il filo d’oro della gioia, che è in grado di attraversare tutta la vita e tutte le situazioni più incomprensibili, è proprio l’irruzione di una presenza che non conosce tramonto né mutamento: «Eccomi, la mia alleanza è con te» (Gn 17, 4). Ciò che fa unità nella vita di Etty è proprio questa presenza di Dio sempre più interiore ed efficace che le permette di non escludere nessun elemento dell’esistenza e di non perdere, al contempo, la sua pace: «Molte persone mi dicono: "Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di vivere qui". Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente ogni cosa di "prima" (per me non è neppure un "prima"), e intanto la vita continua» (66). Se c’è una cosa che ferisce Etty è quella di «aver solo cose tristi da dirti» (104) quando le sue lettere da Westerbork diventano un bollettino di atrocità e di paura, eppure mai questo sentimento conquista interamente il suo cuore.
Etty è stupita di se stessa quando scrive: «Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro… Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa?… Probabilmente è da lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non si inaridisce per l’amarezza che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte» (164).
Per Etty si fa sempre più chiaro e, in certo modo, sempre più imperativo il bisogno di maturare in una fedeltà al mistero della vita e di Dio capaci di andare oltre ogni condizionamento e ogni paura: «essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori» (222). La fedeltà è una risposta generosa a un dono incommensurabile che si è ricevuto e che si riceve continuamente: «La vita rimane una corrente ininterrotta, forse in questi giorni un po’ più lenta e ostacolata, ma continua tuttavia a scorrere» (112). Un simile profondo sentire non può permettere che ci «si abbandoni smodatamente alle proprie tristezze sino all’autodistruzione» (112).
Proprio il terribile e temibile lavoro di scribi e farisei sempre intenti a contare, a contrapporre va ostacolato e combattuto come si fa con le «pulci delle tante piccole preoccupazioni per il futuro che divorano le nostre migliori forze creative» (221). Mentre la tristezza di solito si organizza su tempi assai lunghi e disperanti la gioia non può che fondarsi su attimi gustati fino in fondo e capaci di dare sapore e colore all’intera vita: «si devono fare le che vanno fatte per il resto non ci si deve lasciar contagiare dalle innumerevoli paure e preoccupazioni meschine che sono altrettante mozioni di sfiducia contro Dio» (221). A Etty non sfugge affatto che la tristezza è uno dei vizi capitali: prima ancora di avere a che fare con noi stessi e con il mondo che ci circonda rappresenta, nientemeno, che una "mozione di sfiducia contro Dio" che accuseremmo appunto di non essere "con"!
Per Etty invece si tratta di fare continuamente un atto di fiducia verso Dio e concentrare tutte le forze – soprattutto le migliori come lei sottolinea spesso – sul lavoro che ci compete: «In fondo il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggiore tranquillità, fintanto che si sia in grado di irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato» (221). Era quello che continuamente ripeteva il grande staretz Serafino di Sarov: "Trova la pace e a migliaia troveranno accanto a te la salvezza". Ed era proprio a partire da questa pace, conquistata a caro prezzo, che il padre Serafino poteva rivolgersi a tutti – compresi coloro che lo avevano quasi ucciso di bastonate e agli animali della foresta russa – con questo appellativo: "Mia gioia"«però il prezzo di questo biglietto d’ingresso è alto e pesante, e lo si guadagna risparmiando a lungo, con sangue e lacrime. Ma nessun dolore e sangue sono troppo cari per questo» (130).
Misteriosamente – assai misteriosamente – Etty si ritrova ad essere annoverabile in questo tipo di persone, questa "razza" particolare di uomini e donne come la Madre di Dio aveva spiegato in sogno a Serafino mentre lo guariva nel corpo perché potesse guarire le anime: «e "lavorare a se stessi" non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ciascuno in se stesso …quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra» (127).
Terrore!
Due volti per una medesima testimonianza: Geremia e Gesù, il terrore e la fiducia. Il profeta del conflitto aperto non esista a confessare: «Terrore all’intorno!» (Gr 20,3), mentre il Signore Gesù – Messia scomodo e in-comprensibile – non esita a sfuggire «dalle loro mani» (Gv 10,39). Attorno a Geremia come attorno al Signore Gesù la minaccia si fa sempre più forte: «portarono pietre per lapidarlo» (Gv 10,31). Il terrore è un sentimento terribile per ogni creatura e non solo per gli esseri umani. Esso è legato all’essenza stessa della creaturalità, alla coscienza del proprio limite e alla consapevolezza che altri o altro – dall’esterno – potrebbero attentare alla vita.
Come trasformare il terrore in fiducia? Una domanda e ben più di una domanda che ha attraversato la vita di Etty richiedendole una risposta sempre più adeguata e autentica:«Di nuovo arresti, terrore, campi di concentramento, sequestri di padri sorelle e fratelli. Ci si interroga sul senso della vita, ci si domanda se essa abbia ancora un senso: ma per questo bisogna vedersela esclusivamente con se stessi, con Dio. Forse ogni vita ha il proprio senso, forse ci vuole una vita intera per riuscire a trovarlo» (48).
E questo senso che permette di attraversare la vita e persino il terrore di certi momenti che la caratterizzano, non può che essere trovato in un processo di maturazione forte e autentico. Riferendosi a Klaas Smelik senior – «era anche uno dei giuristi più brillanti in Olanda e i suoi articoli così intelligenti erano formulati alla perfezione» – Etty spiega accuratamente come quest’uomo che «era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui sarebbe potuto essere u perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi». Prova ne è il suo doppio tentativo di suicidio in quelli che furono i «primi giorni della guerra e ora – sopravvissuto ma morto – non aveva mai contatti amichevoli coi suoi compagni, e se questo succedeva agli altri lui li guardava di sottecchi con un’espressione così affamata». Etty non esista a cogliere l’origine di un simile atteggiamento e lo stigmatizza con chiarezza sorprendente: Era paura, tutta paura! Una paura da cui quest’uomo non ha saputo evolvere: «In certi momenti mi faceva una pena terribile. Aveva una bocca così insoddisfatta, o meglio, così infelice: era la bocca di un bambino di tre anni che non è riuscito ad imporsi a sua madre» (210-211).
Il segreto della vittoria sul terrore per Geremia è il poter dire: «poiché a te ho affidato la mia causa» (Gr 20,12) e per il Signore Gesù non è altro che il suo mistero di intimità: «il Padre è in me e io in lui» (Gv 10,38). Non diversamente per Etty la paura e il terrore non possono che vincere, appunto, quando ci isoliamo dal mistero della vita e non evolviamo docili secondo le leggi proprie della natura: «dal mio letto guardavo fuori attraverso la grande finestra aperta. Ed era come se la vita con tutti i suoi segreti mi fosse nuovamente accanto, come se la potessi toccare. Avevo la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le nude braccia della vita e ci stavo così sicura e protetta». E come se non bastasse così continua: «le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso» (114-115).
Solo con questo continuo ritorno al "petto della vita" è possibile sottrarsi alla morse del terrore che consiste – appunto – nel sentirsi preda di qualcuno a cui non si può o non si riesce a sfuggire. Il terrore del sentirsi in trappola è una sentimento tremendo per le creature viventi poiché la trappola è sempre legata all’inganno e l’inganno prova gli essere viventi più della stessa morte. Infatti ogni essere vivente viene al mondo nella fiducia e dover rinunciare alla fiducia, come fondamento della vita, può essere talora più provante della stessa morte certa e imminente.
Non è certo facile andare oltre il muro del terrore anzi è difficilissimo eppure non bisogna mai dimenticare che il terrore non è eterno se non per coloro che se ne sono serviti facendone una modalità del loro essere. Il terrore è capace di rendere ciechi a tutti gli altri aspetti della vita e del senso. Nel terrore si può avvertire o l’istinto ad aggrapparsi a qualcuno o a qualcosa oppure intuire quanto, invece, «ci si debba staccare interiormente» (48) per dare meno presa possibile al terrore.
Per Etty solo la coscienza e la profonda esperienza della presenza intima di Dio può permettere di superare certi momenti in cui tutto sembra remare contro la nostra stessa vita e la nostra pace: «Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d’animo più elevato e pieno di fede. Si può essere stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c’è qualcosa che non ti abbandonerà mai più» (137).
Vi è poi una nota di rara efficacia psicologica da parte di Etty che non si può sottovalutare. Se da una parte insiste sempre e continuamente su «la nascita di un’autentica autonomia interiore che è un lungo e doloroso processo: è la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli altri, mai.Ancora più importante è il seguito: gli altri sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi» (68).Solo il dimenticare che gli altri sono altrettanto – e talora ancora di più – vulnerabili e feriti di quanto lo siamo noi stessi può farci cedere alla pericolosa velleità di dare loro troppo peso nella nostra vita: anche quando ci stessero letteralmente schiacciando non dobbiamo perdere di vista che sono, in realtà, "insicuri, deboli, indifesi". Solo così potremo essere, eventualmente, schiacciati ma non terrorizzati (cfr. 2Cor 4,9). Non bisogna mai perdere di vista il livello di finzione (68) insito ad ogni tentativo di incutere terrore da parte di una creatura su un’altra – e questo non vale solo fra umani ma anche nei riguardi delle altre specie viventi -!
Il terrore è il mezzo che le creature più impoverite usano per cercare di possedere realtà e persone che mai si concederebbero a loro per amore e volentieri: non è forse la forma negativa del piacere nel cui Giardino Dio pose l’uomo il primo giorno della sua creazione? Per questo al fine di evitare di subirlo o, peggio ancora, di infliggerlo dobbiamo accuratamente curare la radice di questo terribile e temibile male rinunciando sempre di più od ogni brama di possesso: «Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire "oggettivo". Non volevo più possederlo» (33). E se questo vale con la natura vale ancora di più con le persone sempre terrorizzate all’idea di ritrovarsi non più amate: «Oh, lasciar completamente libera una persona che si ama, lasciarla del tutto libera di fare la sua vita, è la cosa più difficile che ci sia» (147). Ma la più bella!
Che facciamo?
Siamo oramai alla fine! Sembra di poter commentare l’evoluzione dei fatti con questa nota di Etty: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare. Per ora ci sono ancora tante piccole aperture, ma anche queste saranno turate tra breve» (153-154). Il gesto di richiamare alla vita l’amico Lazzaro che «era già di quattro giorni» rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso d’ira che pian piano si colma attorno al Signore Gesù: «Che facciamo?» (Gv 11,47).
Il Signore Gesù mette a rischio le belle pietre del santuario, e soprattutto mette a rischio la situazione di coloro che su quelle pietre hanno riposto la loro sicurezza… Gesù ricorda come e quanto la presenza di Dio in mezzo al suo popolo è la vita - «li libererò… li purificherò… sarò il loro Dio» (Ez 37,23) - e allora è meglio "che muoia" (Gv 11,50). La condanna a morte di Gesù – unitamente a quella di Lazzaro – coincide per Giovanni con l’insopportabilità per il Sinedrio di questo segno. Gesù ha allargato troppo gli orizzonti della vita, infonde troppa speranza, ha ravvivato troppo la fede rendendola profonda e autentica e quindi sembra proprio che non ci sia alternativa: «da quel giorno decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). Ma vi è un’altra domanda che attraversa il vangelo e che suona così: «Non verrà egli alla festa?» (Gv 11,56).
Quest’ultima è la domanda più adatta al nostro cuore mentre ci prepariamo ad entrare nel mistero pasquale di Cristo Signore e perché non sia solo una semplice forma di curiosità è importante che si faccia posto nel nostro cuore alla sua presenza, alla sua voce, alla sua volontà. Mai come nei prossimi giorni della Settimana Santa «ci troviamo di fronte ad interrogativi più profondi…» (131). La celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo Signore ci mette di fronte al grande interrogativo del mistero della vita che si attua attraverso la morte: «Però come è difficile morire, eh» (131).
Il momento del Getsemani ci fa contemplare la stessa fatica del Signore Gesù ad acconsentire al tipo di morte a cui ormai sa di andare incontro: una morte avvolta da profondo odio, la peggiore. Si potrebbe che per Etty il lungo tempo trascorso a Westerbork sia stato come un lungo Getsemani in cui la sua anima ha dovuto confrontarsi con il mistero di un odio crescente senza lasciare che questo odio – secondo l’esempio del Signore Gesù – penetrasse minimamente nel suo cuore sempre più docile e abbandonato: «Non devo volere le cose, devo lasciare che le cose si compiano in me ed è proprio ciò che sto facendo. Che sia fatta non la mia ma la tua volontà» (230).
Sarebbe un errore voler fare di Etty una cristiana nel senso confessionale del termine ma sarebbe ugualmente irrispettoso non cogliere nel suo «lento processo» (229) interiore una profonda compatibilità cristologica. Il Cristo compare poco negli scritti di Etty eppure la sua figura domina il tramonto a questa vita di Spier che tra le ultime cose condivise con Etty ha proprio un sogno: «ho sognato di essere battezzato da Cristo»(198). Di questo"Cristo", misteriosamente ereditato tra i beni più preziosi lasciatigli dal suo maestro, Etty si sentirà responsabile fino a pregare: «Mio Dio, mi dai dei tesori da custodire, fa’ che li custodisca e li amministri bene» (232). Si deve resistere ad ogni tentativo o tentazione di "cristianizzare" l’esperienza di Etty Hillesum! La sua è un’esperienza unica e personale impossibile da incastonare in una tradizione ben delimitata e delimitante anche se la stessa Etty ritiene il "cristianesimo" come forma privilegiata di umanesimo in relazione a un punto preciso e fondamentale: il superamento dell’inimicizia attraverso il perdono.
In una discussione con Klaas, Etty parte da un principio di base: «non si combina niente con l’odio» (210) e aggiunge: «abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi» (211). E come se non bastasse siamo come introdotti nel cuore del mistero del Crocifisso che perdona e consola perfino nel momento della cruenta morte: «E non ho neppure finito quando dico che anche fra noi esistono carnefici e persone malvagie. In fondo io non credo affatto nelle cosiddette "persone malvagie". Vorrei raggiungere le paure di quell’uomo – il noto giurista che aveva cercato di ammazzarsi – e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori» (212).
La discussione con Klaas si fa fortissima quando Etty conclude: «ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale» (212). Ecco la risposta alla domanda che si pongono i membri del Sinedrio:«Che facciamo?» (Gv 11, 47). Ogni volta che questa domanda attraversa il nostro cuore dobbiamo ri-centrare l’attenzione su noi stessi senza avere bisogno non solo di eliminare l’altro ma imparando a non avere necessità di eliminare nulla dell’altro. E Klaas risponde un po’ sconcertato: «ma questo sarebbe ancora cristianesimo!» (212) ed Etty divertita reagisce «con molta flemmacerto, cristianesimo – e perché poi no?» (212).
Si tratta di entrare in una logica del tutto nuova e assolutamente conforme a quella che guidò i passi del Signore Gesù verso Gerusalemme. La domanda riportata dal vangelo di Giovanni diventa per noi – in queste ore – un desiderio grandissimo e crescere: «Non verrà egli alla festa?» (Gv 11, 56). Egli viene ogni volta in cui facciamo posto nel nostro cuore alla logica della sua croce amorosa fonte di vita: «A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale» (45). Si potrebbe quasi dire che la nostra vita non sarebbe servita a niente.
Quando si entra invece – a pié pari – nella logica del Regno di Dio allora tutto e tutti assumono ai nostri occhi una preziosità intoccabile fino a poter parlare del luogo della propria morti-ficazione con accento innamorato: «Quella baracca talvolta al chiaro di luna, fatta d’argento e di eternità: come un giocattolino sfuggito alla mano distratta di Dio» (212). La croce assume per Etty i contorni di «una baracca di legno sotto il cielo» (213),per ciascuno di noi corrisponderà a qualcosa di unico e forse di segreto a condizione comunque che sia il luogo della celebrazione solenne del perdono sull’esempio del Cristo Crocifisso (Lc 23,34). Alla domanda "Che facciamo", c’è una sola risposta cristologicamente adeguata: «Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero: allora si conoscono tute le qualità degli uomini, buone e cattive. E se vogliamo perdonare agli altri, dobbiamo prima perdonare a noi stessi e ai nostri difetti. E’ forse la cosa più difficile, come constato così spesso negli altri e un tempo anche in me, ora non più: sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri errori. Il che significa anzitutto saperli generosamente accettare» (207)
Non abbiamo niente altro da fare!
Si comincia con l’invadenza
Per aiutarci a comprendere il grande dramma che il Signore Gesù sta per vivere – quello del tradimento – la liturgia pone il tremendo atto di Giuda in assoluto contrasto con il tenerissimo gesto di Maria di Betania. Questa donna – ben familiare a Gesù – "sei giorni prima della Pasqua" (Gv 12,1) intuisce nel suo Signore - di cui conosce l’affetto per lei e non solo per lei - qualcosa di imminente e di terribile. Forte della sua intuizione Maria esterna ciò che sta per accadere con un gesto di sconfinato e pervasivo amore che si incontra con la docile accoglienza di Gesù ma si scontra con l’invadenza di Giuda:"Perché?…" (Gv 12,5).
Il commento apparentemente sensato di Giuda in realtà rompe l’incanto di quell’amore che si sta manifestando come abbraccio totale che parte dalla punta dei piedi di Gesù e arriva alla cima dei capelli di Maria: «cosparse i piedi di Gesù e li asciugò coi suoi capelli»(Gv 12,3). Giuda tradisce questo mistero d’amore in atto il cui profumo "riempì tutta la casa"… ma non il cuore di Giuda "che era ladro" (Gv 12,6)… e la radice di questo suo difetto sta nel suo essere invadente: impudicamente viola l’intimità altrui e vuole misurare il cuore degli altri.
Maria di Betania apre l’ultimo scorcio di cammino verso Pasqua. Con lei e in lei la Chiesa pone la giusta cornice ai fatti così duri che stanno per accadere: nonostante le apparenze – nonostante la volontà degli uomini – il vero scenario della Passione è quello di un immensa tenerezza e di una intramontabile amicizia. Etty direbbe con una punta di sgomento: «Eh sì, noi donne, noi stupide, idiote, illogiche donne, noi cerchiamo il Paradiso e l’Assoluto. E col mio cervello, col mio eccellente cervello, io so bene che l’assoluto non esiste,che ogni cosa è relativa e infinitamente sfumata e in perpetuo movimento, e proprio per questo è così interessante e seducente ma anche così dolorosa. Noi donne vogliamo eternarci nell’uomo» (63).
Ma forse questo sgomento non può che trasformarsi in semplice stupore e imitazione contemplando il gesto di Maria di Betania, un gesto che non cerca solo di "eternarsi nell’uomo" ma, in realtà, di eternare l’umanità aldilà di ogni minaccia di distruzione così come il Signore stesso comprende, accoglie, ama questo gesto: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura» (Gv 12, 7). La domanda che Etty si poneva:«Forse pretendo un amore assoluto proprio perché io non ne sono capace?» (63), trova una risposta nel gesto silenzioso di Maria che, in realtà, starà - impercettibilmente ma luminosamente - sullo sfondo dorato della sua ultima parola nel suo Diario: «si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite» (239). Un ultima parola che cerca di contrastare il maligno e invadente spirito del Giuda sempre serpeggiante e che suonerebbe così davanti ad ogni gesto che vada aldilà delle necessità quotidiane: «ma tanto che cosa ce ne facciamo?». Cosa ce ne facciamo di un bel gesto come questo? Cosa ce ne facciamo di una poesia, di un’opera d’arte, di una nuvola di note? Cosa ce ne facciamo? E la risposta di Etty e chiara: «È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri» (239).
Giuda che apparentemente vuole risparmiare in realtà non fa che impoverire il mondo con il suo cuore miope e tapino. Maria invece arricchisce la storia con un gesto la cui portata diventa eterna e incommensurabile: «In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» (Mt 26,13). Veramente in questa donna piegata fino a terra si nasconde e si rivela al contempo quello che fu il grande desiderio di Etty via via che le tenebre si facevano sempre più fitte: essere «il cuore pensante della baracca» (196). Maria di Betania fu come il cuore pensante della "baracca di Gesù" e questo suo cuore intuì quel «gran bisogno di carezze e di tenerezza» (66) di cui questa donna per prima ha potuto ricevere il dono proprio da quel Gesù sicuramente capace – ben più di qualunque uomo di questa terra –«di trasmettere un calore e una tenerezza che non nascono dal corpo, ma dall’anima» (130).
Ciò che avviene nella casa di Betania dove «gli fecero una cena» (Gv 12,2) è lo stupendo incontro tra l’animus di Gesù e l’anima di Maria in cui la forza dell’intesa profonda si manifesta nella forma di un gesto comprensibilissimo solo a chi può com-prendere il linguaggio proprio dell’amore: per chi non lo comprende tutto ciò che avverrà non sarà che scandalo e, per lo stesso Giuda, semplice motivo di rovina. Una delle caratteristiche di questo "linguaggio nuovo" - in cui già si pratica quel «comandamento nuovo» (Gv 13,34) che sarà lasciato ai discepoli tra non molto da un Gesù scandalosamente piegato ai loro piedi proprio come questa donna - è proprio l’intuizione, la capacità di anticipare (238).
Ma per anticipare bisogna essere in grado di superare ogni condizionamento e andare oltre ogni convenzione: «Quanto siamo pieni di convenzioni, di preconcetti sui comportamenti da tenere in determinante situazioni. A volte, inaspettatamente, qualcuno si inginocchia in un angolino di me stessa» (200). Ma questa libertà non può che scandalizzare Giuda proprio mentre nel suo cuore si fa strada la notte del tradimento di chi non coglie più un futuro nell’amore del e per il Signore Gesù. L’amore sempre anticipa i gesti più adatti all’amore! Ma per anticipare bisogna «amare e hineinhorchen [ascoltare dentro] se stessi, gli altri, il contesto di questa vita… In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltare dentro me stessa, gli altri, Dio» (201).
E se il nome proprio di questo balsamo e l’essenza unica di questo profumo fossero proprio la capacità di ascoltare da dentro e di anticipare con i propri gesti i momenti più delicati della vita dell’altro quasi per renderli più dolcemente vivibili? Se tutta la nostra vita non fosse altro che stare ai piedi della storia degli uomini – loro che sono il corpo di Cristo – per preparare ogni passo perché possano percorrere agevolmente e dolcemente tutta la strada che li attende fino al compimento? Non potremmo in questo caso che sentire la dolce parola del Signore Gesù: «Lasciala fare…»«Sai, io ho tanti amici. Alcuni vengono da me con le loro difficoltà spirituali e così dobbiamo parlare a lungo… Con te è un’altra cosa: tu esisti nella mia vita e sarebbe inconcepibile il contrario, io discorro spesso con te… io continuo a pensarti con il forte e buon sentimento di sempre….Le cose buone e umane che abbiamo condiviso sono vive nei miei sentimenti e sono sempre reali» (52).
Sia la nostra preghiera: «Signore lasciami fare!». Si può tradire solo se si pensa di possedere, chi non possiede non potrà mai tradire perché mai potrà invadere il segreto dell’altro ma solo ungerlo per conservarlo ben oltre ogni possibile morte. Ogni giorno – oggi anche a noi – è chiesto di essere meno traditori e più lenitori: «Non è meraviglioso? Non oserei dirlo a nessuno con così tante parole» (179), «sì noi tutti vogliamo eternarci in quell’uomo - in Gesù -… sì vorremmo tutti essere stupide, idiote, illogiche donne» (63).
Deciditi
Da un’intimità all’altra: da Betania al Cenacolo, dal gesto tenerissimo di piedi accarezzati con il più prezioso dei profumi al gesto intimissimo del discepolo "che Gesù amava"(13,23): solo lui può comprendere e può osare la domanda "reclinandosi sul petto di Gesù" (Gv 13,25). Nel Cenacolo il cuore del Signore Gesù effonde tutta la sua tenerezza, la sua vulnerabilità e il suo dolore: «Mentre era a mensa si commosse profondamente… uno di voi mi tradirà… prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte» (Gv 13,21. 38). Non basta essere discepoli… in certi momenti è più importante essere amici, essere oggetto di un amore unico e indicibile. Solo l’amore del discepolo che conosce la via del cuore del Signore Gesù potrà rimanere fedele sino alla fine.
Giuda e Pietro – ciascuno di noi – sono ancora discepoli troppo "esteriori" per essere in grado di sopportare il peso dell’abisso del cuore del Maestro – uno "tenendo la cassa" (Gv 13,29) e l’altro tutto intento al momento storico che sta vivendo "perché non posso seguirti ora?" (Gv 13,37) – pensano di fare o poter fare qualcosa per il Signore ma non ne hanno ancora sondato il mistero fino a farsene travolgere. Solo la mente posta sul cuore è in grado di penetrare il mistero fino a sopportare il fallimento della Croce. Di certo Etty rischia di far parte proprio di quell’"aristocrazia" su cui l’umanità si regge - come spiegava Jung – e i cui due archetipi sono proprio, nella tradizione spirituale, Maria e il discepolo amato: per costoro possono essere ben appropriate alcune frasi di Etty: «anch’io credo, so che esiste un’altra vita. Credo persino che certe persone siano in grado di vederla e di viverla anticipatamente. Quello è un mondo in cui gli eterni sussurri mistici si sono fatti viva realtà, e in cui gli oggetti e le parole comuni hanno acquistato un significato più alto» (218).
Questo tipo di persone sono capaci di andare aldilà di ciò che si vede per intravedere e sentire ciò che sta al fondo degli avvenimenti proprio come «artisti sensibili che possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti?» (238). Sta di fatto che quando ritroveremo Simon Pietro dopo la Pasqua lo troveremo sempre all’ombra di questo discepolo amato il quale intuisce di più non perché ama di più ma perché si è fatto amare di più dal Maestro. Il discepolo amato assomiglia così tanto a quello «spino delle dune» (237) che Etty chiama caro quasi alla fine del suo Diario quando cita- tra l’altro una frase di F. Bierenbach – che ben si addice alla situazione del Cenacolo: «Ci sono persone che mi porto dentro come boccioli e che lascio sbocciare. Ce ne sono altre che mi porto dentro come ulcere, finché si aprono e suppurano» (238). Questa frase nella situazione del Cenacolo facilmente si sposa con la frase del Signore Gesù: "Quello che devi fare fallo al più presto" (Gv 13,27). A un certo punto è necessario decidersi e il Signore Gesù ci obbliga a prendere la nostra decisione e manifestare fino in fondo il nostro cuore per quello che è… semplicemente per quello che è! E l’amato si posa sul cuore dell’Amore come spino che ferisce teneramente ma profondamente: "Signore chi è?" (Gv 13,25).
Ci sono momenti – come quello vissuto da Giuda e da Simon Pietro e dal discepolo amato – in cui si coglie in un solo attimo il frutto di tutta una vita, in cui si assapora il gusto di tutta un’impostazione di vita: il tradimento, il rinnegamento o un contatto intimo e profondo esattamente al livello del cuore anzi – come direbbe Origene – precisamente«all’apice del cuore». Ma a questo luogo elevato, in questa «sala al piano superiore già pronta» (Mc 14,15.Lc 22,12) non si arriva certo per caso: «tutta la mia vita è un grande colloquio con te, mio Dio. Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei, ma mi sento già fin troppo al sicuro in te, mio Dio. A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassionate, ma mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose. E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora» (122-123).
Non doveva essere molto diverso il sentimento di Maria durante quella cena preparata a Betania. Non doveva essere molto diverso il profondo sentire del discepolo amato mentre gli altri si agitano: «ondate del mio cuore più lunghe, mosse e insieme tranquille». In perfetta sintonia con i pacifici immensi fondali del cuore di Cristo sul cui abisso l’amato non ha timore di sporgersi quasi per lasciarsene assorbire completamente. Tutta la vita di Etty è stata come un affacciarsi sempre più coraggioso e spericolato sull’abisso di quell’Amore che si manifestò in modo del tutto unico e incomparabile nel Cenacolo. Eppure spiritualmente ogni briciolo d’amore e ogni frammento di carità disperso nell’umanità è stato attinto e ricapitolato in quel momento di grazia: «Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi – forse era la più grande paura di Giuda e di Simon Pietro – a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò "Dio", e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, "lavorando a noi stessi", allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze» (220).
Solo questa remota disponibilità ad inabissarsi totalmente nel mistero dell’Altro apre la possibilità a quell’incontro di anime che si consumò tra Gesù e il discepolo che si reclina così naturalmente sul suo petto come un bimbo/amante come un amante/bimbo fino a poter dire: "mi ha riposto nella sua faretra" (Is 49, 2). Del resto per Etty «l’età dell’anima è diversa da quella registrata all’anagrafe…si può nascere anche con un’anima che ne ha mille esistono ragazzini dodicenni in cui si sente un’anima simile». E a scanso di ogni equivoco Etty chiarisce due cose importanti. La prima: «penso che un Orientale "viva" la propria anima molto di più mentre l’occidentale non sa bene che farsene e se ne vergogna come di una cosa immorale». La seconda: «L’anima è diversa da ciò che noi chiamiamo "sentimento". Ci sono persone che hanno molto "sentimento" ma poca anima» (236).
L’anima a differenza del sentimento è la realtà che meno ci appartiene e che dobbiamo sempre di più imparare a scoprire fino ad affidarle il destino e la direzione di tutta la nostra vita profonda ed essenziale. Il sentimento dovrà imparare a farsi portavoce dell’anima per non smarrire se stesso nel dedalo di un latente egoismo. L’anima conduce la persona verso orizzonti sempre più ampi come una farfalla che si libra di fiore in fiore: «e mentre me ne sto coricata qui, non viaggio forse per il mondo? In me scorrono i larghi fiumi e s’innalzano le grandi montagne. Dietro gli arbusti della mia irrequietezza e dei miei smarrimenti si stendono le vaste pianure della mia calma e del mio abbandono. Tutti i paesaggi sono in me, ho tanto posto ora, in me c’è la terra e c’è anche il cielo» (234). E tutta questa ampiezza è misteriosamente racchiusa in quel lembo di terra che si stende tra la mia fronte e il cuore del Signore Gesù: guidati e attratti dai sussurri mistici di questo amore «devo attingere forza e amore per chiunque ne abbia bisogno» (155).
Siamo all’altezza della nostra anima? O siamo ancora stupidamente preda dei nostri sentimenti vagabondi… "ed era notte!" (Gv 13,30). Ben altra è la notte a cui sei invitata dall’Amore, per ben altra notte fosti chiamato fin "dal seno materno" (Is 49,1), deciditi!
Il giorno più buio!
Non c’è giorno più triste di questo in cui ricordiamo la "vendita" del nostro Signore e Maestro da parte di uno dei suoi, di uno di noi. Quanto profonda dovette essere la notte interiore in cui l’apostolo sprofondò quando «andò dai sommi sacerdoti e disse: "Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?"» (Mt 26,15). Per vendere qualcuno, per tradire qualcuno è necessario sentire un qualche diritto sulla persona che si tradisce…! Il tradimento tradisce sempre un attaccamento morboso e possessivo che facilmente si traduce in una frustrazione tale da esigere l’eliminazione. Con la loro autorità i sommi sacerdoti quantificano a apparentemente placano l’angoscia di Giuda: «gli fissarono trenta monete d’argento» (Mt 26,15)… il prezzo dello schiavo (Es 21,32) non certo il prezzo di un maschio libero – che vale 50 sicli - «invece per una donna, la tua stima sarà di trenta sicli» (Lv 27,4). Finalmente Giuda – ossessionata dal bisogno di stimare e valutare"trecento denari…" (Mc 14,5) – ha trovato qualcuno che gli ha "valutato" il suo Gesù… e lui stesso – finalmente è chiaro – vale di più: il tradimento nasce sempre dal complesso di inferiorità per superare la cui disperazione non rimane che s-valutare l’altro per sopravvalutare se stessi: «sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato» (Mt 26,4).
In un passaggio molto duro del suo Diario Etty scrive così riferendosi al commento di alcuni circa la prematura morte di Spier: «Dicono che sei morto troppo presto. Bene allora ci sarà un libro di psicologia in meno ma è entrato un po’ più di amore in questo mondo».E aggiunge citando lo stesso Spier: «Questo è un peccato contro lo spirito, e si vendicherà. Ogni peccato contro lo spirito si vendica. Credo anche che ogni "peccato" contro l’amore per gli altri si vendica, nella persona stessa come nel mondo circostante» (220). L’insensibilità di Giuda al gesto di Maria di Betania e il suo rimanere cieco davanti al gesto del discepolo amato non fanno che rilevare l’assoluta chiusura di quest’uomo al linguaggio dell’amore, alla relazione vera con gli altri e quindi chiuso alla stessa relazione di crescita offertagli dal Maestro. Per questo a Giuda non resta che andare dai sommi sacerdoti…: «è dunque così che vivono gli uomini: usano gli altri per farsi convincere di qualcosa in cui in fondo non credono; cercano negli altri uno strumento per coprire la propria voce interiore. Se ascoltassimo solo un po’ di più questa voce, se provassimo solo a farne risuonare una dentro di noi, quanto meno caos ci sarebbe» (226-227)… quanto dolore in meno!
Diverso è l’atteggiamento di Etty in perenne crescita verso un difficile ascolto di questa voce interiore a cui tutto e tutti in certo modo sembrano condurla: «Non mi ha forse sgombrato la strada che conduce direttamente a Dio, dopo avermela aperta con le sue imperfette mani umane?. Perché la cosa più importante è e rimane scoprire in me stessa che ero in grado di aprirmi completamente con qualcuno, di legarmi e di condividere con lui le necessità del momento». Per Etty la cosa più importante è che si aprano nella vita«delle porticine sul mondo, delle porticine che avevo sempre creduto sbarrate» (227). L’iniziazione alla capacità di amare non fa che lanciare Etty in una fedeltà sempre più allargata e inglobante fino a poter dire: «Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito» (172).
Ma questo amore per tutti, questo amore infinito non ha niente a che vedere con l’amore "clericale" che rischia in realtà di essere semplicemente amore per nessuno e ben limitato e limitante. Giuda cerca rifugio per la sua angoscia tra le mura del tempio di pietra e tra le pieghe dei rassicuranti abiti "sacerdotali" che gli dicono ciò che vuole sentirsi dire e nulla di più. Ma la vita non può essere colta in poche formule… la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata in "trenta monte" (Mt 26,15). Giuda fa fatica ad entrare nel mondo di Dio così vasto per cui preferisce ritornare ai confini e ai limiti già noti: «Questo voler ritornare al buio, al grembo materno, alle collettivo; invece di diventare autonoma, trovare la mia forma, strapparla al caos» (69).
Giuda non consegna Gesù, in realtà ri-consegna se stesso al caos rassicurante dell’inconscio collettivo – il "religioso" è il più negativo tra i tanti possibili – da cui la discepolanza avrebbe voluto sottrarlo per condurlo alla maturità del tratto e del gesto assolutamente personali e responsabili. Ma rimanere continuamente a contatto con la propria legge interiore non è facile: «l’unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa. E io lo dico ora con tutta umiltà e riconoscenza e sincerità» (87). Ma da dove può nascere questa sicurezza e fiducia incrollabili se non in una fondamentale esperienza di essere amati: «Le cose veramente primordiali in me sono i sentimenti umani, una sorta di amore e di compassione elementari che provo per le persone per tutte le persone… mi sembra di aver già amato, o di essere già stata amata abbastanza. Mi sento già molto vecchia» (65).
Forse ciò che mancò a Giuda fu proprio quest’esperienza di fondo! La mancanza di un’autentica esperienza di intimità può facilmente rendere traditori, in caso contrario la fiducia non può che sempre avere l’ultima parola in qualunque circostanza e a qualunque prezzo come lo fu per il Signore Gesù – l’Amato e il Diletto – sulla Croce! Per Etty questa esperienza di chiarezza e pace in me stessa è frutto di quello che chiama sfondo:«l’amico …che non ha segreti per me e a volte può ridiventare segretissimo» (74) e che le rende impossibile acconsentire a qualunque forma di odio che sarebbe come «una malattia dell’anima. Odiare non è nel mio carattere. Se, in questo periodo, io arrivassi veramente ad odiare, sarei ferita nella mia anima e dovrei cercare di guarire al più presto possibile» (30). Ma ad Etty non sfugge il segreto della radice più remota di ogni forma di "odio" che è il possesso che si può nascondere persino nel suo innato bisogno di scrivere: «Credo di capire anche questo. È un altro modo di "possedere", di attirare le cose a sé con parole e immagini… e adesso, improvvisamente, questo atteggiamento che per ora chiamo "possessivo" è cessato. Mille catene sono state spezzate» (34-35).
Una piccola – flebilissima – luce forse potrà illuminare anche il terribile e scurissimo giorno del tradimento: il desiderio più forte della notte di essere raggiunti dal nostro Maestro e Signore persino oltre il nostro tradire l’amore. Egli, il Signore, ancora e sempre ripete: «io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro… Affrontiamoci» (Is 50. 5.8) ma a viso aperto ossia senza bisogno di tradire o di nascondere la nostra frustrazione nelle cose più intime: non è mai troppo tardi per imparare a farsi accarezzare da uno sguardo che "tradisce" l’amore del cuore: «eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce… a ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non possiamo soccombere» (87).
ho fame!
Entrare nel Mistero pasquale significa - attraverso la forza trasformante dei riti - farsi carico dei nostri bisogni più fondamentali e, al contempo, dei bisogni dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Quasi come ultima parola, come si è già avuto modo di ricordare, Etty pone come testamento della sua vita una parola non dissimile da quella del Signore Gesù:«Ho spezzato il mio corpo come fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo» (238). Ma cosa potrebbe raccontare un pezzo di pane di se stesso se non il mistero della più profonda condivisione fino all’assimilazione:«quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa?»(238). Mentre l’itinerario spirituale di Etty procedeva con forza verso il suo compimento la sua vita è divenuta misteriosamente sempre più una risposta ai bisogni primari di coloro che gli vivevano accanto in tempo di assoluta minaccia.
Eppure questa risposta di assoluta condivisione e di dono della propria vita, che fu quella di Etty, andò sempre di pari passo con la corrispondenza ancora più profonda alla sua fame interiore di senso e di presenza di un Dio sempre più nitidamente avvertito. Di questo testimonia l’ultimo biglietto lanciato da un finestrino del treno che la porterà assieme ai suoi cari verso Auscwitz: «apro a caso la Bibbia e trovo questo: il Signore è il mio alto ricetto. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci» (149).
Etty ci lascia un parola testamentaria alla fine del suo Diario e una sorta di autoscatto a conclusione delle sue Lettere. La possiamo contemplare tutta disponibile a farsi mangiare come un pane lungamente preparato "con azzimi di sincerità e verità" (1Cor 5, 8) come pure ci è dato di scorgerla alla fine proprio nella doppia luce tipica del Cenacolo: completamente sicura nel suo alto ricetto della misteriosa «sala al piano superiore della casa» (Mc 14,15) e contemporaneamente seduta nel mezzo dei suoi fratelli e sorelle"condotti al macello" (Is 53,7).
Il Giovedì santo è il grande portale di ingresso del Mistero Pasquale ed è caratterizzato dal cibo, dal pane, dall’agnello, da quel "mentre cenavano" (Gv 13,2) in cui ogni parola e ogni gesto assume una peso e un significato così sacramentale che siamo chiamati a perpetuare nella nostra vita in obbedienza a quella parola: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14). Ma un obbedienza adeguata al comandamento del Signore Gesù sarebbe impossibile fuori da un contesto di intimità e di crescita nella comunione con il suo cuore, con la sua logica, con il suo infinito amore. Se da una parte e in tutta piena verità si potrebbe dire che le parole del Signore Gesù «anche le più semplici, sembrano più impressionanti, significative, vorrei quasi dire più "cariche" che se le dicesse un altro… perché le cose in lui sgorgano da sorgenti più profonde, più vive, e anche più profondamente umane» (95) dall’altra bisognerebbe poter sperare con tutto il cuore che il nostro camminare con lui – anche attraverso i giorni di quest’ultima quaresima – ci abbia a nostra volta "maturati e inteneriti" (105) come è capace di fare ogni relazione tra persone che sia degna del nome di "umana".
Lo spazio del Cenacolo e "l’atmosfera che emana" (94) dal Signore Gesù che si offre in cibo e lava i piedi dei suoi amici con tenerezza materna è il massimo di umanità che si possa sognare di respirare su questa terra. Se venendo nel mondo ogni creatura impara a riconoscere l’amore a partire dal cibo e dalla cosmesi del corpo allora Gesù è il volto più amabile che si possa immaginare. Possiamo dire con tutto noi stessi e senza vergogna:"Ho fame!". Il Signore ci risponde dicendo «Questo è il mio corpo che è per voi» (1Cor 11,24): mentre Mosé trasmette a nome di Dio il "modo" (Es 12,11) in cui l’agnello deve essere mangiato, il Signore Gesù ci indica il modo in cui dobbiamo lasciarci mangiare:«Se dunque, io, il Signore e il Maestro…» (Gv 13,14) non resta che "date voi stessi da mangiare" (Mc 6,37).
Davanti a questa esigenza dell’evangelo anche noi potremmo dire la frase che viene riferita a Etty da una sua amica: «Dio mi ha messo in una classe superiore, i banchi sono ancora troppo grandi» (216). Forse non fu molto diversa la sensazione provata dai discepoli davanti al gesto e al comando del loro Signore che stava ai loro piedi già pronto a farsi mettere sotto i piedi di tutti! Ma questo metterci "in una classe superiore" non è forse ancora un atto di grande fiducia in noi da parte del Signore: «sì, i banchi sono ancora un po’ troppo grandi, ogni tanto è un po’ difficile» (216) ma non possiamo nascondere quanto siamo onorati dalla fiducia che Dio ripone in noi, in ciascuno di noi per renderlo presente in mezzo all’umanità sempre più affamata e smarrita.
Con grande sorpresa ci tocca leggere una frase di Etty assai strana: «Non so se potrò essere un’amica per gli altri. E se non potrò esserlo perché non è nel mio carattere, bisogna che affronti anche questo. In ogni caso non devi mai illuderti. Devi aver misura. E tu sola puoi essere misura a te stessa». Questo dubbio di Etty ci conforta in quelli che possono essere i nostri stessi dubbi circa la capacità di amare e di farci prossimo per i nostri fratelli. Anche noi sperimentiamo a livello relazionale ciò che lei stessa dovette attraversare come pasqua quotidiana in cui immolare l’amore di se per trasformarlo in amore per l’altro: «È come se ogni giorno io sia scaraventata in un gran crogiuolo e ogni giorno io riesca ad uscirne» (75).
Il Signore Gesù ci lascia in eredità il suo infinito amore che continuamente possiamo contemplare nell’Eucarestia che rappresenta come quell’oceano in cui giacciono immensi tesori ancora invisibili: «È già successo che galeoni carichi di tesori naufragassero nell’oceano. L’umanità ha sempre provato a ripescare questi tesori sommersi. Nel mio cuore sono già naufragati tanti galeoni e per tutta la vita cercherò di riportare alla superficie una parte dei tesori che giacciono sul fondo» (216). Cosa potremmo chiedere alla luna pasquale - che risplende nel suo pieno fulgore - se non darci un piccolo barlume verso questo «fondo meravigliosamente immerso nella luce confortante della luna in cuitutto è di una solennità e di una pace che mi rendono muto e serio» come scriveva l’amico all’amica (214). È tempo di donarci, è tempo di spezzarci, è tempo di amare.
…ho sete!
Dall’alto della croce il Signore Gesù non esita ad esprimere il suo ultimo desiderio: "Ho sete" (Gv 19,28). È stupendo ammirare il Signore Gesù che non rinuncia fino all’ultimo né alla sua divina regalità – "io sono re" (Gv 19,37) – né alla sua vulnerabilità che lo rende bisognoso di scambio e di relazione con l’esterno per vivere e morire: dichiarazione solenne – ben più del cartiglio composto da Pilato – che fa di Dio un assetato di umanità, un perenne assetato. E quando si raggiunge un livello così raffinato nella propria umanizzazione c’è solo un rischio, uno solo: «il mio unico rischio è che il mio cuore si spezzi per l’amore che provo» (175).
Alla fine di questo lungo esodo ci ritroviamo sotto la Croce, ci ritroviamo sotto ogni croce e come Etty non possiamo che sentirci attratti da ogni «pezzetto di terra in mezzo alla brughiera in cui sono scaraventati tanti destini umani» (21). E proprio sotto la Croce possiamo assaporare il frutto più dolce del Paradiso: «Donna ecco tuo figlio… ecco la tua madre» (Gv 19,26-27). Ecco la vera (Gv1,39) in cui il Maestro ci svela il suo nascondiglio nella "cella del vino" (Ct 2,4) a lungo maturato: la casa dove abita il Maestro è la tenerezza dell’amore divinamente connaturale di una madre per un figlio e di un figlio per la madre. Sotto la croce, sotto ogni umana crocifissione non possiamo che avere il cuore della Madre e dell’Amato che ritroviamo nello stesso atteggiamento di Etty sempre più confrontata con l’assurdità del dolore: «Certi mi dicono: hai dei nervi d’acciaio. Non credo di avere dei nervi d’acciaio, credo anzi di avere nervi abbastanza sensibili, però sono in grado di "resistere". Ho il coraggio di guardare in faccia ogni dolore. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini» (233).
Non ci risulta difficile pensare al Signore Crocifisso che proprio mentre "tutto è compiuto"(Gv 19,30) osando dichiarare la sua sete di tenerezza ne inonda – ancora una volta – coloro che sono sotto il suo patibolo e non solo: voglio tanto bene agli uomini. Ed Etty ci svela quasi il significato di questo atteggiamento completamente nuovo: «Non provavo mai amarezza per quel che veniva fatto loro, sempre invece amore per come degli uomini fossero capaci di sopportare il dolore» (233). Un segno per discernere se siamo o meno sotto la Croce giusta – quella del Signore Gesù – sarà proprio questa assenza di amarezza, questa capacità di non essere "scandalizzati" dal dolore ma affinati e raffinati nella conoscenza degli uomini e dell’umanità sempre più amata, meglio amata.
Ma come affrontare il mistero del dolore se non con un atteggiamento di accresciuta e sempre crescente interiorità: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più "raccolta", concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa celle della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande, a anche un fatto sempre più oggettivo» (111). Sembra che Etty sia proprio entro i confini di questa interiorità sempre più profonda che, da una parte, si sente capace di raccogliere tutte le lacrime e le paure e dall’altra – proprio come in una sorta di alambicco interiore in cui mai il fuoco della trasmutazione si spegne né si allenta – porta a compimento la sua personale trasformazione e sublimazione per cui la sua anima si tempra senza assolutamente indurirsi: «Credo di diventare ogni giorno più temprata, a parte quell’indisciplinata vescica, ma indurita non lo sarò mai» (191) E subito dopo aggiunge: «posso imparare molto dallo spettacolo offerto dalla mia anima… è una vita che si svolge interiormente e lo scenario esteriore ha sempre meno importanza. "Temprato": distinguerlo da "indurito"» (192).
Sulla croce il Signore Gesù – già morto – conserva un cuore in cui non c’è alcuna traccia di indurimento anzi al tocco della "lancia" (Gv 19,34) si effonde ancora come casa ed eterna sorgente di tenerezza dopo aver dichiarato tutta la sua sete. Dio ha talmente sete di noi in Gesù che possiamo darci a lui per quel che siamo – in tutta la nostra mescolanza e putrescenza – egli comunque ci assorbe e trasforma quello che siamo in purissimi "sangue ad acqua" (Gv 19,34). Sempre la croce ci fa sentire un po’ più soli ma ciò che dalla Croce riceviamo in eredità non può che farci sentire più responsabili di una"testimonianza" (Gv 19,35) assolutamente necessaria. Potremmo riprendere alcune parole di Etty per rivolgerle quasi come risposta del nostro cuore al Signore Crocifisso: «Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me, e ora che te ne sei andato la mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere» (196).
Al pari della madre, come le donne, insieme all’Amato la Croce – in qualunque forma si presenti alla nostra vita e alla storia del mondo – rappresenta il tempo e il luogo della verità dell’Amore: «Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima» (161).
Un pezzetto intatto della propria anima è il dono del Crocifisso per ciascuno di noi che – come si fa nella liturgia dell’Epitaffio in Oriente questa sera – il Signore nella sua morte ci consegna come un fiore pieno di vita e di speranza. Guardiamo non solo il Crocifisso ma lasciamoci ammirare profondamente da Lui e lasciamoci interrogare: «Ma non esistono forse altre realtà, oltre a quella che si trova sui giornali e nei discorsi vuoti e infiammati di uomini "intimoriti"? Esiste anche la realtà del ciclamino rosso-rosa e del grande orizzonte, che si può scoprire dietro il chiasso e la confusione di questo tempo» (215) … di ogni tempo! Ed ecco la nostra preghiera sotto la Croce, una preghiera che potrà sembrare inadeguata ma forse è l’unica degna del Cuore Trafitto di Cristo: «Dammi un piccolo verso la giorno, mio Dio, e se non potrò sempre scriverlo perché non ci sarà più carta e perché mancherà la luce, allora lo dirò piano, alla sera al tuo gran cielo» (215). Un verso attraverso cui si possa offrire "un tetto" (202) a Dio come all’ospite più importante. Si tratterà di partire sempre e solo «dal principio di aiutare Dio il più possibile» (164) a placare quella sete di tenerezza di cui ha bisogno per essere Dio:
Tra chi va per silenti case
sei il più silente.
Sei un capriolo luminoso e corri
Io sono buio e sono un bosco.
(Rilke, Stunden-Buch, I)
…ho sonno!
Il Sabato Santo è consegnato all’assoluto Silenzio, all’assoluta Nudità: il Verbo che si fece carne si è fatto Silenzio! Nel nostro cuore si fa forte la percezione di un certo vuoto, di una strana assenza, di un profondo abisso come ogni esperienza di morte produce in coloro che sopravvivono a coloro che muoiono cosa che, spesso, accadde di sperimentare ad Etty nel campo di Westerbork: «Ogni tanto qui muore qualcuno perché il suo spirito è a pezzi e non riesce più a capire, in genere sono persone giovani» (87). Davanti a questa in-finita croce Etty poteva ancora scrivere due mesi prima della sua deportazione: «La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde – fisicamente si è forse un po’ giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte»(88) e raccomanda ai suoi amici – e perché no, anche a noi che siamo diventati suoi amici -: «rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi» (88).
Forse è proprio questa la domanda che Etty ci pone e ci lascia in eredità alla fine di questo lungo esodo verso la Pasqua vissuto in sua compagnia: «Avete il vostro posto di guardia?». Due posti sono possibili: stare davanti al sepolcro in cui dorme il re come le guardie mandate da Pilato (Mt 27,65) oppure – e sarebbe ben più augurabile - introdurci nella stesso sepolcro per stare il più vicino possibile al Signore facendo condividere alla nostra anima fedele e casta la sua stessa pace: «la sua sinistra è sotto il mio capo» (Ct, 2,6).
Ogni volta che ci tocca di attraversare il dramma di un Venerdì Santo anche a noi verrebbe da dire: «se tu sapessi che sonno che ho!» (119). Il Sabato Santo ci ricorda che il segreto di ogni giorno è dormire ogni notte! Addormentarsi significa avere fiducia che attorno a noi qualcuno veglierà sulla nostra vita anche quando non saremo in grado di fare niente per noi stessi. Il Sabato Santo ci invita a lasciarci andare al sonno e a lasciarci sorprendere dal sogno senza temere di essere condotti in terre sconosciute e persino negli abissi della terra e del cuore: «Mio Dio devo lasciarti più fare» (218) attraverso quelle «lunghe notti che saranno le mie notti migliori» (112). Come nel sonno così in ogni morte, accolta e abbracciata, si può dire: «Io dormo ma il mio cuore veglia» (Ct 5, 2). Il cuore è la nostra grande ricchezza soprattutto quando dolcemente egli continua a battere mentre tutto il resto del corpo e persino l’anima riposano lontani da ogni inutile pre-occupazione: «Quasi tutte le persone di qui sono molto più povere del necessario, perché registrano la loro nostalgia degli amici e della famiglia come una perdita nel libro dei conti della vita – mentre il fatto stesso che un cuore sia in grado di desiderare e di amare così tanto dovrebbe essere contato fra i beni più preziosi» (118).
Non fu forse per lo stesso primo Adamo il momento più magico quello in cui accettò di attraversare la notte nel cui mistero Dio diede carne e ossa all’amore (Gn 2,23)? E quest’opera non è ancora finita ed è ancora in atto in quanto «l’uomo è una strana creatura e da qualche parte in me c’è un’officina in cui dei titani riforgiano il mondo» (223).Ma questa officina è tanto più operosa quanto è più silenziosa, è tanto più feconda quanto più è nascosta, è tanto più efficace quanto più è avvolta dal mistero: «esisterà sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera» (173). Ci sono notti – questo tipo di notti! - in cui «non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare» (173).
Ma cosa è mai l’atteggiamento proprio della preghiera pura se non questa capacità di abbandonarsi nella mano di Dio accettando persino di essere sepolti in un «sepolcro nuovo» (Gv 19,41) nella consapevolezza che anche da lì «potrebbe venire fuori qualcosa di bello solo se continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me» (172). Forse la cosa più difficile è questo abbandono con-fidente! L’insonnia è diventata una malattia assai diffusa e in questo modo si manifesta la grande difficoltà della nostra generazione a lasciarsi andare e ritagliarsi di tanto in tanto un piccolo Sabato Santo:«oggi voglio ritirarmi a riposare nel mio silenzio: nello spazio del mio silenzio interiore a cui chiedo ospitalità per un giorno intero» (148) per poter dire alfine: Ho nell’anima tanta calma e dolcezza, e un senso di appagamento che riposa in Dio. Se dopo una notte passata in questa intimità rigenerante potessimo dire di ogni nostro incontro con Dio: «E sabato sera: l’anello della nostra relazione si è chiuso, così semplicemente e così naturalmente. Come se di notte non mi avesse mai ricoperta altro che una corona a fiori» (189)!!!
La Chiesa d’Oriente conclude la Celebrazione del Venerdì Santo sommergendo letteralmente di fiori e profumi la Croce e l’Epitaffio e all’alba del Sabato Santo sparge dovunque rami e foglie d’alloro per indicare la grande vittoria del Cristo su ogni inferno che possiamo sperimentare nell’abisso insondabile del cuore dell’umanità… del nostro cuore! Sapremo noi dormire in pace avvolti da questa notte? Sapremo farci ricoprire da una«corona a fiori» che potrebbe spuntare persino «su un pezzetto di duna ventosa sotto il cielo» (118)? Questa è la grande sfida pasquale per la nostra vita. Una sfida che Etty – in comunione con tanti altri uomini e donne degni di portare questo nome – ha accolto e amato fino in fondo nella sua vita facendone una grande avventura, una sorta di lungo viaggio verso il suo cuore, alla ricerca degli spazi infiniti della sua anima, immergendosi nel mistero della sua interiorità e accettando di esservi seppellita e trasformata soprattutto nelle lunghe ore trascorse accanto alla «mia cara scrivania, il più bel posto di questa terra» (148).
Abbiamo noi un pezzetto di «sepolcro nuovo» che sia per noi «il più bel posto di questa terrà»? Nell’ultimo biglietto raccolto dal vento così Etty scriveva: «Abbiamo lasciato il campo cantando… Viaggeremo per tre giorni» (149). Cosi ci congediamo da lei contemplandola in canto e in viaggio per i suoi tre giorni in attesa di raggiungerla e di raggiungere tutti coloro che ci attendono per la grande festa della Risurrezione. Non abbiamo scampo questa festa si farà come dice stupendamente Dostoievskij in un testo sicuramente letto dalla stessa Etty:

Se cacceremo Cristo dalla terra,
noi lo incontreremo sotterra!
E allora noi,
gli uomini del sottosuolo
intoneremo nelle viscere della terra
un inno tragico al Dio della gioia.

Non sappiamo nulla di più di Etty, non vogliamo saperne nulla di più:
sì, viaggeremo per tre giorni!

A testa alta per la libertà contro il male

Cent'anni fa nasceva Etty Hillesum

*
Di Bruno Forte.
Etty Hillesum era nata in Olanda il 15 Gennaio 1914, un secolo fa. Anche per questo voglio ricordarla oggi, a poca distanza dalla Giornata della Memoria. La sua vita fu breve e intensa: laureatasi in giurisprudenza ad Amsterdam, si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave e si interessò della psicologia analitica junghiana. La guerra interruppe i suoi studi. Fu una donna vivace, intelligente, brillante, dai molteplici interessi. Visse con intensità e passione alcune relazioni d’amore.
Nel 1942, quando lavorava come segretaria presso una sezione del Consiglio Ebraico, le fu offerta la possibilità di mettersi in salvo, fuggendo in America. Scelse di restare, per condividere la sorte del suo popolo, quel popolo ebraico che la barbarie nazionalsocialista aveva deciso di sterminare. Lavorò nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale.
Il 7 settembre 1943 fu deportata con i suoi cari ad Auschwitz. Vi morì poco tempo dopo, uccisa dal gas, il corpo divorato dalle fiamme, il 30 Novembre 1943. Aveva ventinove anni. Di lei ci restano le pagine intensissime del Diario (pubblicato nel 1981, in italiano nel 1985 da Adelphi) e delle Lettere (Adelphi 1990). Nel cuore della tragedia, che aveva visto il momentaneo trionfo del “male assoluto”, al centro del “secolo breve” che è stato il XX secolo, in un tempo schiacciato dal peso di una follia collettiva senza pari, alimentata da un’ideologia assurda di violenza e di morte, Etty portò avanti la sua appassionata ricerca spirituale. Si nutrì di Jung, di Dostoevskij (in particolare de L’idiota) e degli altri grandi scrittori russi, e soprattutto della poesia di Rainer Maria Rilke.
Lesse la Bibbia ebraica, specialmente i Salmi. Scoprì e meditò il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo di Matteo e l’apostolo Paolo, e autori cristiani, tra cui l’amatissimo Agostino. Dalla finestra della sua stanza osservava a lungo il cielo notturno, il grande orizzonte. Si fermava con occhio intenerito sui fiori, sempre presenti sulla sua scrivania. Nel dramma che viveva il suo popolo e l’intera umanità, seppe tener alto lo sguardo ed essere un “cuore pensante”. La linfa attinta alla radice antica e profonda dell’albero ebraico, aperta ad accogliere la meravigliosa fioritura del Vangelo, le consentì di attraversare a testa alta, con libertà radicale e con amore immenso per le vittime, la stagione forse più drammatica del Novecento europeo.
Proprio così, il messaggio della Hillesum è oggi più vivo che mai. In un’epoca di crisi diffusa che, prima che materiale ed economica, è morale e spirituale, ha qualcosa da dire a tutti noi questa giovane donna, che ha saputo non arrendersi al male. La sua è stata una straordinaria forma di resistenza, capace di contagiare forza e speranza a distanza di anni, in situazioni certo mutate e di fronte a difficoltà differenti.
La lettura di un solo brano del suo Diario basterà a far luce sul perché di questa convinzione: è la preghiera della Domenica mattina, 12 Luglio 1942. Etty annota:  “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano”.
Figlia del suo tempo, questa donna non chiude gli occhi di fronte al dramma, non fugge, e trova nel dialogo più profondo, che sia possibile all’anima, uno squarcio di luce: “Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla”. Lontana da ogni presunzione, consapevole anzi della sua debolezza e di quella di ogni cuore sincero, Etty accetta di fare la sua parte, si assume il peso della sua responsabilità di fronte al bene da fare e al male da fuggire: “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.
Per questa via, la giovane Ebrea olandese capisce qual è la sua missione nei confronti del prossimo, che è stata chiamata a servire e ad amare: “Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”. È qui che passano davanti agli occhi del suo cuore pensante le tante, umanissime reazioni alla follia devastante che impera: “Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento - invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”. Giunta a questa certezza, Etty si traccia un programma di vita, che la condurrà a offrire tutta se stessa per gli altri, e proprio così a vincere col suo messaggio di speranza la cieca barbarie dei tempi in cui visse: “Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio”. Questa fiducia, più grande di ogni abbandono, questa speranza più forte della morte, sono l’eredità che la Hillesum lascia alle donne e agli uomini del nostro e di ogni tempo. Un’eredità difficile, forse addirittura una sfida: eppure, l’unica per la quale valga la pena impegnarsi, e che apra agli occhi della mente e del cuore un futuro di rinascita, donando al contempo i segnali dell’aurora di una speranza possibile e vittoriosa sulla morte e sul male.
Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 19 gennaio 2014, pp.1 e 8
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